La storia maestra
di vita per la Chiesa

Una comunità locale è rimasta senza preti. Le comunità vicine sono nella stessa situazione e quindi non possono inviare nessun aiuto. Un prete passa una, due volte all’anno. Celebra la Messa, confessa, parla. La comunità vive la vita ordinaria, organizzandosi attorno a una figura laica, che gestisce e amministra: è di fatto il responsabile della comunità. È lui che, di norma, celebra anche i battesimi (come noto, i battesimi possono essere amministrati, in situazioni particolari, anche dai laici). La comunità laica, senza prete, celebra anche i funerali.

Le donne hanno un ruolo importante nella comunità in genere e, in particolare, proprio nella celebrazione dei funerali. Di che cosa sto parlando? Di un’ipotetica, lontana Chiesa del futuro? No, di una reale Chiesa del passato. Lontana nel tempo: siamo tra il 1600 e il 1700 e lontana nello spazio: siamo in Cina. Ne ha parlato, in uno degli ultimi numeri, la rivista dei gesuiti, «La Civiltà Cattolica», esattamente nel numero del 10 settembre scorso. L’autore è Nicolas Standaert. Il titolo: «Grandi personaggi della Chiesa primitiva in Cina». Con un sottotitolo significativo: «Il ruolo delle comunità cristiane». I grandi personaggi, dunque, non sono tanto i nomi celebri, sia di missionari europei che hanno vissuto in Cina, a cominciare da Matteo Ricci, sia di cinesi celebri che si sono convertiti al cristianesimo. Ma di gente comune, spesso analfabeta, che costituiva il tessuto di base delle comunità cristiane cinesi. Le comunità sono tenute insieme da quelli che l’autore chiama «rituali efficaci», cioè da riti che celebrano feste cristiane, ricorrenze di santi, e dalla preghiera comunitaria. Preti «itineranti» - che dunque non sono al servizio esclusivo di una o più particolari comunità - le visitano raramente, fanno la messa, battezzano, confessano. Va notato che il cristianesimo cinese, tra il 1600 e il 1700, anche se illustrato da nomi famosi, è un fenomeno, comunque marginale. Alla morte di Matteo Ricci (1610) c’erano in Cina 2.500 cristiani. Intorno al 1700 erano diventati 200 mila su una popolazione tra i 150 e i 200 milioni di abitanti. Anche in seguito i cristiani in Cina sono rimasti una esigua minoranza. Gli stessi sacerdoti non sono mai stati numerosi. Sempre alla morte di Matteo Ricci erano soltanto 16. In seguito, lungo il 1600, i preti diventarono una quarantina per salire a 140 all’inizio del ’700, con l’arrivo di missionari dall’Europa.

Perché vale la pena parlare di un fenomeno così lontano? Perché potrebbe fornire qualche suggerimento, qualche suggestione – qualche suggestione soltanto – su una possibile Chiesa del futuro. E non tanto in Cina, quanto da noi. In quella lontana esperienza cinese sono soprattutto due le caratteristiche portanti: la responsabilità laica e la forte concentrazione sulla liturgia e la preghiera. Il prete passa in particolare per celebrare i sacramenti, ma non è lui la figura di riferimento. Le figure di riferimento sono i laici che hanno anche il compito di assicurare la sopravvivenza della comunità con il battesimo, e la sua vitalità con riti, feste, preghiere.

Dal nostro punto di vista siamo portati a vedere una Chiesa siffatta come marginale, costretta a vivere una situazione d’emergenza. Ma ciò che è interessante è che quella Chiesa ha saputo supplire quello che manca - l’Eucaristia frequente - con un sovrappiù di quello che c’è: le devozioni, le preghiere, le attività caritative e, bisogna aggiungere, la formazione e le varie aggregazioni interne. C’è certamente qualcosa di cinese in tutto questo, ma c’è anche qualcosa di genuinamente ecclesiale, comunitario che è esportabile fuori di quel tempo e fuori di quello spazio. E tutto questo è, per un credente di oggi, qualcosa di molto incoraggiante, nonostante tutto. Si dice che la storia è «maestra di vita». Maestra di vita non solo per i singoli, ma anche per la Chiesa, e in particolare per la nostra Chiesa occidentale, spesso così dimessa e talvolta così rassegnata.

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