La tassa su Internet
Conviene sbrigarsi

L’elusione fiscale dei giganti del Web va avanti ormai da decenni. Come è noto, le società che operano in Internet non sono un «opificio» come le imprese della «old economy», sono entità digitali, ovvero immateriali come i loro prodotti e dunque scelgono la residenza fiscale dove vogliono. Di conseguenza vanno a stabilire la loro sede, legalmente, dove si pagano meno tasse. Non evadono, ma eludono. Naturalmente tutto questo permette ai vari Google, Facebook, Amazon e via dicendo di sottrarre all’erario degli Stati dove operano parecchi denari.

Nel caso dell’Italia è stata calcolata una perdita di mezzo miliardo di euro al triennio. Un discreto tesoretto. Oltretutto i colossi del Web sfruttano indirettamente le strutture del Paese in cui operano, come la banda larga, costruite dagli Stati e pagate dalle imposte dei cittadini.

Naturalmente una soluzione semplice a questa perdita di gettito non esiste, altrimenti gli Stati l’avrebbero già trovata. È invece una questione maledettamente complessa. Ora pare si arrivi almeno a riconoscere che bisogna trovare una soluzione. Germania, Francia, Spagna e Italia hanno formalizzato la richiesta all’ultimo Ecofin di Tallin, che ha riunito (informalmente) i ministri finanziari dell’Unione di una «Web tax» ovvero di una tassa che non tenga conto della residenza fiscale ma dei mercati in cui operano i giganti del Web, tassando dove si genera realmente reddito. Ad essi si sono uniti Austria, Bulgaria, Grecia, Portogallo, Slovenia e Romania, che hanno aderito alla proposta. Al prossimo vertice Ecofin di Tallin, a fine mese, la proposta verrà ufficializzata.

Il problema è il come e che cosa tassare, perché qualunque soluzione ha la sua controindicazione. Il fatturato ad esempio è difficile da quantificare a seconda delle aree di mercato. Inoltre presuppone che l’azienda paghi anche sui costi oltre che sui ricavi. Vi sono altre proposte, come quella dell’Estonia, che indica nei contratti (ad esempio quelli pubblicitari) un parametro da tassare proporzionalmente alle aree di mercato. L’India invece propone di misurare il volume di traffico digitale. L’Italia ha già approntato una soluzione transitoria, la «presunzione di stabile organizzazione», attraverso quello che potremmo definire una sorta di studio di settore: tassare tutte le imprese hi-tech che superano il miliardo di fatturato e i 50 milioni di utile.

Vi è poi un problema centrale: adottarlo solo in Europa o creare una tassa a livello internazionale, a livello Ocse, come vorrebbero Lussemburgo, Malta e Irlanda? Naturalmente non è difficile indovinare come mai questi tre Paesi si sono schierati contro la «Web Tax»: sono i Paesi che ci guadagnano di più con l’elusione fiscale, ospitando sedi fiscali alla metà della tassazione media corrente in Europa (se non di meno). Il loro intento è probabilmente solo quello di allungare i tempi perché si arrivi a un nulla di fatto.

Va detto che un problema internazionale c’è poiché un ostacolo potrebbe arrivare da una rappresaglia «protezionista» degli Stati Uniti, che come è noto sono sempre molto reattivi nel proteggere gli interessi economici nazionali. Con Trump poi, almeno a parole, lo sono ancora di più. I colossi del Web sono in gran parte americani, da Google a Facebook. Inoltre, in caso di tassazione sul fatturato, molte multinazionali del Web potrebbero ricaricare gli aumenti fiscali sui loro prodotti e a quel punto molti dirotterebbero sulla Cina, che ovviamente sarebbe lestissima a fare i suoi interessi economici.

Una visione comune comunque adesso c’è e il ministro dell’Economia Padoan si dice fiducioso: forse si arriverà a una soluzione entro la fine della presidenza estone, cioè entro la primavera. Evviva. Nel frattempo l’economia digitale europea è destinata a crescere dall’attuale 10 per cento al 40 per cento nel prossimo decennio. Conviene sbrigarsi.

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