L’America di Trump
non potrà isolarsi

Divinare l’azione di un presidente appena eletto e non ancora entrato alla Casa Bianca è come predire il futuro leggendo i fondi del caffè o scrutando il volo degli uccelli. Divertente, forse. Ma quasi sempre inutile. Anche perché i presidenti americani fanno quello che gli lasciano fare. Basta guardare i nulla che Barack Obama, per otto anni in carica e tuttora accompagnato da un gradimento popolare sempre oltre il 50%, ha ottenuto su temi non secondari come, per fare solo qualche esempio, la chiusura di Guantanamo, la limitazione della vendita di armi ai civili, il freno alle violenze dei poliziotti.

Anche Donald Trump, pure arrivato alla presidenza sull’onda di un movimento popolare che ha ribaltato i partiti tradizionali (per primo quello repubblicano, che di lui non voleva nemmeno sentir parlare) e ha sconvolto il quadro politico (lui alla presidenza e il Congresso dominato dai repubblicani), si ritroverà presto a mediare. A trovare un compromesso tra la sua volontà, i pareri dei consiglieri, le pressioni delle lobby, gli interessi dell’industria, le esigenze dei militari, le posizioni dei parlamentari e così via.

Una cosa che di sicuro si può dire fin d’ora è che affibbiare a Trump l’etichetta dell’isolazionista è una leggerezza da evitare. In primo luogo perché il Paese che si appresta a governare non può in alcun modo isolarsi. Gli Usa hanno un debito pubblico di 20 mila miliardi di dollari e ogni cittadino americano, nel momento in cui nasce, si trova con 61 mila dollari da restituire. Un debito simile va continuamente rifinanziato, operazione impossibile se non si partecipa, a livello planetario e in posizione di controllo, alla gestione dei commerci, delle attività economiche e delle risorse naturali. Un Paese isolazionista non potrebbe avere il 47% di quel debito rifinanziato da altri Paesi (in particolare dalla Cina, che ne detiene da sola il 10%), come succede agli Usa. Nemmeno Trump, quindi, sarà isolazionista. Al contrario: il suo programma fa pensare a un grande interventismo, anche se di segno del tutto diverso da quello cui siamo abituati. Per restare all’economia, è noto che Trump detesta i trattati commerciali internazionali. È ostile al Ttip che dovrebbe legare Usa ed Europa, vorrebbe rinegoziare il Nafta (l’accordo tra Messico, Usa e Canada per il libero scambio), convinto che in questi patti sia l’economia statunitense a rimetterci. Come si vede, in questo modo il neo-presidente fa tutto tranne che isolarsi. Al contrario, esce all’attacco per conquistare equilibri diversi che ritiene più convenienti per il suo Paese.

In questo Trump non fa nulla di particolarmente nuovo. «America first», prima di tutto l’America, è stato il motto di tutti gli inquilini della Casa Bianca, qualunque cosa dicessero per compiacere le Tv e i giornali. Il fatto è che Trump vede il denaro come il motore del mondo e su di esso regola la propria politica, convinto che sia l’interesse, e non l’ideale, a mettere d’accordo i leader e i popoli. L’aveva detto già in un discorso del 2000: «L’epoca della guerra fredda è finita. Non è più il tempo dei giocatori di scacchi, ora alla diplomazia servono gli uomini d’affari». Filosofia brutale ma chiara e, almeno sulla carta, priva di ipocrisie.

Il che vale anche per i rapporti con gli altri governi, per la cosiddetta «politica estera». Quando Trump si dice pronto a riprendere il dialogo con la Russia fino a ipotizzare azioni comuni contro il terrorismo islamico, non ha certo in mente di consegnarsi al Cremlino o di rinchiudersi tremante tra le mura di casa. Pensa solo che agli Usa non convenga mischiarsi a tutte le crisi del globo, sostenere il 75% delle spese della Nato, portarsi in prima linea nella crisi dell’Ucraina, spendere tra 4 e 6 mila miliardi di dollari in Iraq e in Afghanistan con risultati disastrosi. Quindi sprona gli alleati a prendersi più responsabilità e a non contare troppo sull’ombrello americano. Perché dell’Ucraina non si occupa la Germania? Perché abbiamo mandato i nostri soldati in Iraq? Perché con la facciamo finita con l’Isis, anche a costo di fare un piacere a Putin?

Difficile vedere in tutto questo un ripiegamento della potenza americana. Certo, è un po’ diverso da ciò che ha fatto Obama e da ciò che, con ogni probabilità, avrebbe fatto la Clinton. Ovvero, esportare ideali e democrazia a casa dei non allineati (per esempio in Siria) e tollerare qualunque sopruso purché commesso dagli amici (per esempio in Arabia Saudita). Trump non ha paura degli avversari. Perché dovrebbe averne, se gli Usa hanno una spesa per la Difesa superiore a quella degli altri dieci Paesi che li seguono in classifica e si appresta a investire, nel 2017, mille miliardi di dollari in diciassette agenzie di spionaggio e intelligence? Trump, invece, si fida un po’ meno degli amici. Li considera un po’ parassiti, fin troppo inclini ad appoggiarsi agli Usa nel momento del bisogno. Ingeneroso? Forse. Ma non privo di ragioni. Se saranno solide non tarderemo a vederlo e a provarne le conseguenze.

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