L’autorevolezza
batte le Fake news

Secondo un sondaggio condotto in 18 Paesi di tutto il mondo sta crescendo nell’opinione pubblica la paura delle cosiddette fake news, le notizie false che ormai hanno ammorbato come la gramigna il mondo della comunicazione. Tra i Paesi oggetti del sondaggio non c’è l’Italia, ma è facile immaginare che le risposte non sarebbero state molto diverse. Per la cronaca, i più preoccupati sono i brasiliani. Quelli che vorrebbero nuove regole sono gli inglesi e i cinesi. Ma non credo ci sia bisogno di regole per arginare fenomeni del genere.

Quello delle fake news di per sé non è una novità del nostro tempo perché ci sono sempre state, fin dall’età classica. La più famosa è la Donazione di Costantino che attribuiva al Papa la superiorità sull’impero e altri privilegi, smascherata da Lorenzo Valla. La più odiosa delle fake news è il cosiddetto Protocollo dei Savi di Sion, alla base dei pregiudizi antiebraici, ma potremmo andare avanti per molto.

E allora qual è la differenza? Lo sappiamo tutti: la loro moltiplicazione esponenziale sui social networks. Grazie a Internet ormai chiunque è in grado di costruire un sito in cui metterci tutte le bufale che vuole, costruite ad arte. Come è noto nei Paesi dell’Est e nei Balcani vi sono vere e proprie industrie digitali di fake news a scopo di potere. Per conquistare il potere o dare valore alle proprie idee molti potenti hanno sempre cercato di dare evidenza scientifica ai loro programmi e alle loro idee. Nel caso della mancanza di prove o di numeri, ecco che Internet ha fornito la grossa occasione per fabbricarle. Lo fa, fino al limite dell’impudenza, anche Donald Trump. E il bello è che gli americani gli credono.

I social networks hanno il difetto di essere letti in modo diacronico: una notizia dietro l’altra. Questo sistema «a rullo» appiattisce l’autorevolezza delle notizie: dentro finisce di tutto, dalla notizia inventata ad arte del sito sconosciuto all’analisi del «New York Times», senza che il lettore riesca a farsi un’idea di ciò che è falso e ciò che è attendibile. E così stiamo tornando a un vero e proprio Medio Evo digitale, ricco di profezie, patacche, bufale clamorose, false dichiarazioni, leggende metropolitane, come quella che il finanziere Soros, che ha abbracciato alcune cause filantropiche, in realtà ordisce malefici piani: dalla sostituzione delle etnie alla propalazione dell’ideologia gender.

Poco prima di morire, Umberto Eco aveva ben spiegato come i social networks avessero dato una straordinaria dignità agli ubriachi da bar, fino ad allora relegati appunto nei bar a cianciare sul nulla e oggi in grado di cianciare e mettersi sullo stesso piano di intellettuali, professori, giornalisti, scienziati, addetti ai lavori. Ma in quell’occasione aveva anche detto un’altra cosa: aveva invitato i giornali a pubblicare ogni giorno delle pagine che smontavano le varie bufale digitali.

Ecco allora che il ruolo del giornalista, messo in crisi proprio dai social ha la straordinaria occasione di rilanciarsi. Il «debunking», come viene chiamato in America, sta già dando ottimi frutti ed è alla base della crescita di autorevoli quotidiani, a cominciare proprio dal «New York Times». È l’autorevolezza che salverà i giornali. Purché ci sia la volontà di farlo.

E a proposito di giornalismo, è recente la pubblicazione di una patacca spacciata per scoop riguardante un falso dossier del Vaticano sulla scomparsa di Emanuela Orlandi. In pratica si è sostenuto che anche se fosse una patacca non ha importanza, si tratterebbe egualmente di un grande scoop, perché sarebbe lo stesso una notizia il fatto che in Vaticano circoli una patacca del genere. Se queste sono le nuove frontiere del giornalismo, stiamo freschi. Altro che reporter votati alla scoperta della verità e alla scoperta delle notizie false. Il debunking non fa per noi.

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