Le grandi promesse
dei partiti politici
da febbre polulista

Non si può pretendere che l’oste non decanti il suo cibo. Deve stare attento, però, a non eccedere. Ne va della sua credibilità. La smania di realizzare buoni incassi nell’immediato potrebbe andare a detrimento del suo buon nome. E allora, addio affari. Fuor di metafora, non si può pretendere che i partiti in campagna elettorale siano sobri con le promesse. Anche se vale la stessa avvertenza: e cioè di non superare la misura. Altrimenti, assumendo - come stanno facendo - le vesti di Babbo Natale che dispensa regali a piene mani a tutti gli elettori, si espongono al rischio del ridicolo.

È proprio questa in effetti la figura che i partiti stanno facendo nella presente competizione elettorale. Sulle promesse non si risparmiano. Per di più, senza alcuna seria valutazione sulla compatibilità di bilancio.

Non si sa più cosa pensare: sono gli elettori degli allocchi, pronti a bersi la favola di un Bengodi in arrivo? O sono i partiti a comportarsi come degli irresponsabili allo sbaraglio? Ce n’è abbastanza perché l’opinione pubblica resti oscillante tra il disorientamento e lo sconcerto.

La ragione di questa fuga da un comportamento responsabile va addebitata, certamente, in primo luogo alla classe politica. Non si devono, però, sottovalutare le inedite condizioni in cui i partiti sono chiamati a operare. Anzitutto, pesa il dilagare della febbre populista che imperversa un po’ in tutta Europa e spinge i politici a lisciare il pelo, sempre e comunque, al «popolo».

Nel caso italiano, poi, congiurano alcuni specifici fattori. Primo: il ritorno al proporzionale, che spinge tutti i competitori a fare il pieno di voti, non conta se a rischio di doversi ricredere il 5 marzo delle promesse fatte. Secondo: il tramonto delle ideologie, col conseguente affievolirsi delle identità di partito che hanno impedito in passato gli sconfinamenti nel campo avversario e l’adozione di medesimi punti programmatici. Terzo: la caduta delle barriere che strutturavano il sistema politico, divenuto ora liquido, col risultato che ognuno può sconfinare in ogni direzione alla ricerca di nuovi consensi senza pagare dazio. Ogni promessa è diventata lecita, solo che faccia intravvedere la possibilità di procurare una nuova fetta di elettori.

La confluenza di tutti questi fattori ha finito col disegnare uno scenario di grande incertezza sul futuro che aspetta i partiti nel prossimo parlamento. Incertezza non solo su chi vincerà, ma anche su quale programma si coagulerà una maggioranza e su quale assetto si riuscirà a dar vita ad un governo, che magari sarà solo di transizione.

Alla luce di queste prospettive, perché porsi dei limiti? Cosa vieta di dispensare promesse a destra e a manca? Che convenienza c’è a sottoscrivere un programma che preveda sacrifici? Molto meglio muoversi in piena libertà e lasciare la briglia sciolta alle più generose promesse. Poi si vedrà. Stante una prevedibile frammentazione delle prossime assemblee, l’ipotesi più probabile è che si formi - se si formerà - un governo di coalizione. Ai partiti si offrirebbe allora la solita, comoda uscita di sicurezza, ossia scaricare la colpa delle promesse tradite ad altri: vuoi ai partner di maggioranza, vuoi al sempre operante complotto degli immancabili «poteri forti» - banche, multinazionali, finanza internazionale - vuoi alla protervia e prepotenza di un’Europa succube della Germania.

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