Lega nazionale
localismi esasperati

La prova muscolare-referendaria, che ha opposto, in una rappresentazione propagandistica, la Grecia democratica all’Eurozona – quasi che questa non sia composta da 19 democrazie nazionali (28 quelle della Ue), in cui i leader rispondono ai Parlamenti e agli elettori – ha generato un gioco politico più spregiudicato dei populisti-nazionalisti locali, da Grillo a Salvini fino ad una carovana folkloristica di fascio-comunisti. Tuttavia, qui si vuole provare a spiegare quali siano le ragioni non contingenti della metamorfosi della Lega Nord dal «nordismo» al «nazionalismo».

Partiamo dagli anni ’70. Il triangolo industriale, che ha guidato uno sviluppo esplosivo – tasso annuo del 6% – con la «congiuntura» degli anni ’60 inizia una rapida crisi. Mentre il debito pubblico inizia la sua inarrestabile ascesa, Bossi convoglia i movimenti autonomistici verso il «contenitore» Lega, che si pone come partito-sindacato degli interessi del Nord, già in declino. E inventa genialmente la «questione settentrionale», in un Paese che si è alimentato della retorica della mai risolta «questione meridionale». Il nemico è la «Roma ladrona» del debito pubblico. Gli strumenti politico-istituzionali: secessione prima, federalismo poi. L’idea di Bossi: salvare il Nord. Il suo progetto nel 2006 era fallito. L’alleanza del Pdl, che aveva assemblato il Centro-Sud di An e dei resti Dc col Nord della Lega, non ha bloccato la spesa, né abbassato le tasse.

La crisi mondiale del 2008, a lungo negata, ha compiuto l’opera. Nel nostro territorio ha spianato, da ultimo, l’edilizia e il tessile. E così il Nord economico-sociale, il Nord dell’etica dell’impresa e del lavoro è andato a male. Non più «il Nord», ma tanti frammenti di Nord, nei quali le imprese o si connettono velocemente con le reti mondiali dello sviluppo o chiudono. Lo studioso Giuseppe Berta descrive in un libro – «La via del Nord. Dal miracolo economico alla stagnazione» – questo itinerario e segnala le responsabilità di classi dirigenti culturalmente deboli e di un capitale umano povero. Non è, dunque, tutta colpa di una crisi mondiale,uguale per tutti. Né sono gli immigrati a rubare il lavoro agli italiani. Sono i cinesi che stanno in Cina. È in corso una ristrutturazione aggressiva della gerarchia mondiale delle potenze, tale che assomiglia alla vigilia della Prima guerra mondiale.

In ogni caso, nasce qui la continuità/rottura di Salvini rispetto a Bossi. La continuità: elevare muri mentali per difendere illusoriamente la piccola Italia e le sue «piccole patrie» dalla globalizzazione; dall’immigrazione; dal multiculturalismo. La rottura: la linea Maginot non è più sul Po, ma sui confini dello Stato-nazione. Per una nemesi della storia, un movimento nato autonomista e federalista oggi si presenta come nazional-statalista e perciò centralista. Insomma, Salvini si candida a costruire il «partito della nazione». Il sottofondo culturale e psicologico è il rancore verso il globalismo e l’arroccamento nel localismo. Non sono stati d’animo di Salvini, sono fenomeni reali e diffusi, che nascono da quel 62% di cittadini che le ricerche certificano estranei al dibattito pubblico, poco consapevoli dei mutamenti epocali in corso, sempre meno riflessivi, sempre più impauriti. In un recente incontro Piero Bassetti ha proposto un altro sguardo. Ha denunciato il ritorno pericoloso della «mistica della nazione», ha suggerito la costruzione di una sorta di «Commonwealth degli italici» – circa 250 milioni nel mondo, all’insegna del «glocal» –, ha indicato nell’immigrazione «un’occasione di ringiovanimento» del Paese. Due sguardi alternativi, su cui discutere, tra cui scegliere. Nessuna nazione è più un’isola.

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