L’Europa dei governI
non parla più ai cittadini

Jean Claude Juncker è il presidente della Commissione europea. È stato scelto dai governi e non dagli elettori e quindi al grande pubblico resta sconosciuto. Esprime l’anonimità di un’istituzione sempre più estranea ai cittadini europei. Sono momenti di grande difficoltà per l’Unione Europea,il commissario agli Affari economici Pierre Moscovici è stato ascoltato in video conferenza dal Parlamento italiano ed ha denunciato i pericoli che incombono. Ci sono forze che mirano a smantellare l’Unione Europea. Russia e America hanno interessi convergenti e la Brexit è un cuneo interno che potrebbe accelerare il processo di disgregazione. Il commisssario vede giusto ma si limita a fotografare la realtà. Una forza di governo deve agire e se ha un deficit di rappresentanza lo deve compensare con le idee.

Nei momenti di crisi i popoli si appellano alle grandi personalità. È stato così con Winston Churchill, con Konrad Adenauer, con Charles De Gaulle con Alcide De Gasperi, l’Europa ha bisogno di un politico di razza che ponga gli Stati di fronte alle loro responsabilità Ma il presidente Juncker su questo fronte ha fallito. Alla seduta del Parlamento europeo chiamato a discutere sul libro bianco sul futuro dell’Ue. Ha presentato cinque opzioni ma l’unica ad avere una prospettiva per il futuro è un Europa a velocità variabile.

I Paesi dell’Est europeo vorrebbero solo il mercato unico, il resto non interessa loro, mentre l’opzione per un’Europa con un unico seggio all’Onu e ministro delle Finanze comune in queste condizioni appare pura utopia. I calcoli da ragioniere della politica hanno indotto Juncker a tener conto anche di chi è contrario da qui al 2025 all’Europa a più velocità. Da qui l’inserimento di opzioni di fatto irrealizzabili.

Quello che resta è l’idea del «meglio pochi ma buoni» voluta da Angela Merkel, da Francois Hollande e da Paolo Gentiloni. I trattati rimarranno invariati ma crescono le cooperazioni rafforzate. Questo vuol dire che si potrà procedere senza che il diritto di veto per quegli Stati che non ci stanno possa essere esercitato. La moneta unica e l’area di libera circolazione di merci persone e capitali dell’area Schengen ne sono un esempio. Adesso sono un’eccezione ma dovrebbero diventare la regola quando il quadro politico si sarà stabilizzato. A ventisette è difficile andare avanti in modo omogeneo. Lo dimostra l’ennesimo appello del presidente della Commissione ad accogliere i 160 mila rifugiati che dovrebbero essere ricollocati nei diversi Stati europei ma dei quali solo 13 mila hanno potuto essere trasferiti da Grecia e Italia verso altre destinazioni.

La difesa comune, la sicurezza, la lotta al terrorismo, la cooperazione di polizie e intelligence, la procura europea contro le frodi fiscali, gli standard sociali da raggiungere sono gli obiettivi di un’Europa a più velocità. Tutte questioni che rientrano nella sovranità dei governi nazionali e che rafforzano non l’istituzione comunitaria ma i singoli Stati. Perché questo è il vero cambiamento. Il baricentro non è più a Bruxelles ma nelle capitali europee che rafforzeranno il metodo intergovernativo.

Questo significa che se viene meno un’istituzione terza che bilancia i pesi e le esigenze dei singoli membri dell’Unione prevarranno gli interessi di chi ha maggiore influenza e potere di ricatto. Ed è già quello che si sta verificando perchè quando Merkel parla di interessi europei pensa in primo luogo a quelli tedeschi. Finora il gioco è riuscito ma con un aumento della povertà e della disoccupazione sono in molti a chiedersi quali vantaggi porti loro un’Unione Europea così strutturata.

La domanda legittima che si pone è: a che titolo parla la signora Merkel, visto che il cittadino non tedesco non l’ha mai votata? L’Italia vive la lacerazione del suo tessuto sociale soprattutto nella divaricazione tra Nord e Sud del Paese. In questi anni il divario è cresciuto e non si vede come a breve possa essere colmato.

Se l’instabilità politica italiana renderà più difficile la permanenza italiana nell’euro è certo che un ipotetico Italexit avverrà non a spese del contribuente tedesco. Su questo non vi è politico in Germania che non concordi. Ecco una ragione in più per spingere il Paese a far parte dell’avanguardia.

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