L’Europa non ci aspetta
Le colpe dell’Italia

Sulla cartina dell’Unione Europea lo stivale è in scuro. Campeggia alle spalle del commissario agli Affari Economici Moscovici durante il briefing ai giornalisti. In Europa crescono tutti, solo l’Italia non tiene il passo. La Commissione non pone ultimatum, è troppo nell’occhio del ciclone euroscettico per poter osare, ma il quadro è sconfortante. Instabilità politica e alto debito sono questi i macigni che pesano. Lo 0,9% previsto per il 2017 lo si deve ai bassi tassi di interesse e alla crescita della domanda esterna. Tiene l’export cioè le aziende che hanno già innovato e sono competitive, per le altre non c’è ossigeno. E infatti per il 2018 ci si muove verso l’1,1%.

Quando si polemizza con la Commissione europea per gli zero virgola sarebbe saggio pensare che questi nascono in casa. Sono il frutto dell’incapacità del Paese a far fronte ai suoi mali cronici. Una volta tanto andrebbe riconosciuta pubblicamente una verità detta a mezza bocca: se abbiamo problemi è perché ce li siamo costruiti da soli. Fa comodo addossare agli altri le colpe e certo la miopia tedesca ha esasperato la situazione, ma il debito non l’hanno fatto i partner europei. La litigiosità della politica italiana non è importata.

Negli anni Ottanta i cronisti chiedevano a Bettino Craxi come affrontare il debito crescente e la risposta era: «Ci vuole tempo». Sono passati più di trent’anni e siamo ancora lì. Anzi con il 132% del Pil siamo peggio. Mettiamoci una volta nei panni dei nostri interlocutori: cosa diremmo noi se dovessimo condividere il peso finanziario di un partner che promette sempre di voler risanare e poi trova sempre il motivo per non farlo.

Nelle relazioni internazionali, così come in quelle interpersonali, valgono regole non scritte. L’affidabilità non si compra, la si conquista passo per passo. L’Irlanda era in bancarotta, ha sofferto ma adesso marcia a tassi di crescita sostenuti del 3,4%. La Spagna sta facendo lo stesso, è ancora fragile ma si è permessa più di sei mesi senza un governo e sui mercati internazionali nessuno ha avuto da eccepire. L’Italia teme i cambi drastici e preferisce trascinarsi verso una decadenza lenta pur di non toccare un sistema che sino a ieri ha funzionato ma adesso non tiene più. A un sud che fatica a sopravvivere non fa più il paio un nord in crescita in grado di creare plusvalore per tutti. Il governo Renzi ha tentato l’ennesima scorciatoia: dare soldi a pioggia con i bonus nella speranza di rilanciare la domanda interna. Dall’Europa si è ottenuta una flessibilità di 19 miliardi senza ricavare né un voto di vantaggio per il governo né un salto del Pil che andasse oltre lo zero virgola

Il tutto in condizioni ottimali: il prezzo del petrolio basso, l’immissione sul mercato di 80 miliardi al mese per effetto del quantitative easing (Qe) della Bce , tassi di interesse ai super minimi. In occasione dell’elezione del nuovo capo dello Stato in Germania il presidente del Bundestag, il Parlamento tedesco, ha parlato di Unione degli Stati e non di Unione Europea. Quel che Angela Merkel sussurra Norbert Lammert lo dice a voce piena. Una differenza non sottile. Sono i governi dei singoli Stati che restano al centro delle decisioni e il ruolo delle entità sovranazionali viene a calare. Si va a cedere sovranità ma sempre nel quadro della definizione del potere statuale.

Ecco alla fine si arriva lì: ci si impegna non con tutti, ma con quegli Stati che danno garanzie , gli altri vanno ad un’altra velocità e quindi restano indietro. L’Italia è strategica per esempio per la questione migranti ed anche per quella della sicurezza, ma fin quando non farà le riforme che sono necessarie e che lo stesso Draghi chiede a gran voce, in Europa non troverà ascolto.

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