Libano al voto
Pace in bilico

Il timore è molto alto e la paura che tutto possa ulteriormente complicarsi in Medio Oriente è assai concreta. Per questo le elezioni politiche oggi in Libano sono un evento che fa tremare i polsi a più di una Cancelleria. Il Libano sta pericolosamente in bilico sul precipizio siriano e tutte le forze in gioco a Beirut hanno padrini all’estero non proprio tutti interessati alla stabilità, alla pace e alla giustizia. In un miscuglio di partiti-famiglia-comunità religiose sempre più ingarbugliato, il Paese rischia ancor di più in termini di frazionamento e ingovernabilità, dopo che dal 2009 le elezioni politiche sono state rimandate per tre volte per evitare che il delicatissimo equilibrio nato dagli Accordi di Taif fosse per sempre sbaragliato. Eppure le elezioni e la conferma di un sistema di democrazia consensuale, cioè della necessità di vivere insieme, sono indispensabili al Libano per sopravvivere in mezzo a vicini minacciosi, che continuano ad interferire sulla sua politica aiutati dall’interno. I nomi sono noti: Hariri il premier in carica è protetto dall’Arabia Saudita, Hezbollah da Teheran, le formazioni cristiane sono appoggiate da un’Europa sempre più riluttante ad esporsi in Medio Oriente. E poi c’è Israele, che ha sempre e comunque una partita aperta con il Paese dei Cedri.

Il numero dei partiti (ma sarebbe meglio dire delle fazioni) e dei candidati è impressionante, favorito anche dal sistema proporzionale: 77 liste e 976 candidati per 128 seggi divisi in parti uguali (64) tra musulmani e drusi e cristiani di varie denominazioni.

La situazione del Paese è delicatissima e non solo per il possibile mutamento degli equilibri etnico-religiosi. C’è una crisi economica pesantissima e nel Paese è rifugiato oltre un milione mezzo di profughi siriani su poco più di quattro milioni di abitanti libanesi, con il rischio di alterare ulteriormente equilibri etnici e religiosi soprattutto nel capo musulmano e la cui presenza provoca ondate di razzismo, anche se in realtà i rifugiati sono diventati l’alibi della cattiva politica sociale e della corruzione.

Eppure il Libano ha resistito e già questo è un miracolo, segno che la filosofia degli Accordi di Taif, che hanno fatto nascere quella che viene definita la «democrazia settaria», funziona, ma al tempo stesso essi hanno bisogno di un tagliando. La minaccia è che le elezioni di oggi, rafforzando qualche componente confessionale, per esempio Hezbollah, come quasi tutti gli osservatori prevedono, facciano saltare il tavolo.

Il nuovo Parlamento libanese ha di fronte una sfida nuova e cioè quella di guardare agli Accordi di Taif non in senso statico, come è avvenuto finora garantendo le comunità, ma in senso dinamico, per passare dalla convivenza dei separati in casa al vivere insieme da cittadini uguali con uguali diritti, che non derivano più dalle garanzie delle Comunità, ma da un progetto comune di bene del Paese. Non sarà facile e le incognite di queste elezioni sono tante.

Per riuscire nell’impresa occorre più politica, più creatività e meno calcoli della convivenza tra fazioni, perché questa è la parola per definire ormai ciò che sono diventate le Comunità spezzettate in decine di formazioni e di partiti-famiglia, alleati qui e nemici di là, in un quadro confusionario e tragico con il pericolo di un ritorno della guerra civile, questa volta all’interno delle stesse Comunità. Il futuro invece può passare solo attraverso nuovi legami tra le persone delle diverse comunità e non più soltanto nella garanzia della loro esistenza che tutto blocca in compromessi sempre più azzardati e fatali se gestiti con un patto tra i turbolenti vicini.

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