L’impossibile politica
della società civile

Non sono per nulla finiti i tempi grami dei partiti. Ma neppure la cosiddetta «società civile» se la passa meglio. Un segnale forte, in questo senso, è stato fornito da Matteo Renzi, allorché, in occasione delle nomine Rai, ha difeso le designazioni di partito, in polemica con la retorica del primato della società civile.

La società civile è ciò che Hegel definì «il sistema dei bisogni»: la famiglia, l’economia, le relazioni sociali, il lavoro, le professioni, i corpi sociali. Sopra la società civile si collocava lo Stato politico-amministrativo, il cui vertice era la monarchia prussiana. In mezzo non c’era quasi nulla. Il ’900 ha modificato quella struttura elementare: lo Stato è entrato massicciamente nell’economia e nella società, i partiti di massa si sono interposti quale mediazione tra la società civile e lo Stato. Nell’Italia del dopo 8 settembre 1943, dallo sfascio dello Stato politico-amministrativo e dalla guerra civile si sviluppò il predominio del sistema dei partiti. Il primato della politica partitica sia rispetto alla società civile sia rispetto allo Stato è durato fino al 1989.

Di lì in avanti, dalla crisi del sistema politico-partitico emerge la nuova soggettività politica della società civile. Tutti i nuovi movimenti e partiti – Lega Nord, Patto Segni, Alleanza democratica, Alleanza nazionale, Forza Italia, la Costituente dell’ex Pci, i Girotondi, l’Italia dei valori, il M5S… – rendono omaggio al nuovo convitato di pietra. Come appare chiaro, con l’espressione «società civile» si designa non un soggetto politico determinato, ma piuttosto la seguente filosofia: la politica dei partiti, basata sul principio di appartenenza, è fallita; occorre affermare il principio di competenza, del quale la società civile è titolare esclusiva. Insomma: la politica è cattiva, la società civile è buona. I militanti di partito sono soltanto dei… «militonti». La politica può essere solo volontariato, non può diventare una professione. La competenza professionale in politica è un ossimoro sospetto: solo chi non ha mai fatto politica è competente per farla.

Questa filosofia ha alimentato l’insorgenza di movimenti populisti – è il caso del M5S – che puntano ad un’autorappresentazione parlamentare diretta di settori di competenze della società civile. La politica altro non sarebbe che la risultante delle micro-competenze, amalgamate da una pulsione identitaria. Di questa filosofia e delle sue pratiche è ora di fare un bilancio. Sono passati 25 anni: la società civile italiana è peggiorata sul piano economico e su quello etico, i partiti si stanno dissolvendo, le istituzioni restano irriformate, il Paese è in declino. Né la società civile né la politica sono innocenti. Ne sono direttamente responsabili, tutti e due. Del resto, ciascuna è riflesso dell’altra.

Dopo la sbornia della politica partitica e dopo quella della società civile, è urgente riprendere il filo del discorso sull’essenza della politica. Politica significa visione, progetto, programmi. All’inglese: «politic», come capacità di proporre il bene comune, e «policy», come programmi specifici di governo. Politica come rappresentanza e come governo. Sulla visione/progetto/rappresentanza si fonda il principio di appartenenza; sulla politica come governo si fonda il principio di competenza.

Oggi è molto diffusa la diffidenza per i progetti. Il ‘900 ha generato progetti forti e totalitari, che non avevano incorporato il senso del limite e il cui esito è stato quello di decine di milioni di morti. E, tuttavia, una politica senza progetto porta quasi immediatamente alla trasformazione del principio di appartenenza in motore di collusione mafiosa e clientelare di interessi privati, che attraversa l’intero Paese. D’altronde, la somma di molte competenze non produce né progetto né «politic». La strada della resurrezione della politica di partito appare lunga: passa per una filosofia della responsabilità personale e per l’educazione.

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