L’Isis e l’illusione
della diplomazia

Nel valutare le possibili risposte alla minaccia che ci viene dall’ex-Quarta sponda, bisogna partire da alcuni punti fermi. Primo, le tre organizzazioni jihadiste libiche che finora si sono collegate con l’Isis e ne hanno adottato i barbari metodi rappresentano al momento per Italia ed Europa mediterranea un pericolo maggiore dei fanatici che hanno costituito il Califfato tra Siria e Iraq. Per quanto senz’altro meno numerose, sono installate a «tiro di missile» dall’Italia, hanno pochi avversari sul terreno, stanno prendendo il controllo dei flussi migratori e hanno nel mirino soprattutto il nostro Paese.

Basta guardare l’agghiacciante filmato della decapitazione di 21 egiziani copti, con il comandante incappucciato che punta il suo coltellaccio verso il mare gridando: «Siamo a sud di Roma e stiamo arrivando» per rendersene conto. A sua volta il premier libico Al Thani, rifugiato a Tobruk, ci invita a intervenire prima che sia troppo tardi. Inquietante è anche il fatto che gli scafisti, per la prima volta, abbiano chiesto con i mitra spianati la restituzione del barcone su cui ci avevano portato un centinaio di migranti e che la unità della Guardia costiera, che – incredibilmente – pare fosse disarmata, glielo abbia consegnato.

Renzi, smentendo in parte i suoi ministri Gentiloni e Pinotti, ha detto che non è tempo per una soluzione militare, che ci vogliono «saggezza, prudenza e senso della misura» e non è il caso di abbandonarsi a isterismi. Le opposizioni sono divise tra interventisti e pacifisti. Ma mentre noi facciamo il solito sterile dibattito, l’Egitto si è già mosso, da un lato bombardando per tre volte obbiettivi dell’Isis in Libia e promettendo vendetta e dall’altro chiedendo (con il pronto sostegno della Francia) l’immediato intervento dell’Onu.

Secondo, siamo in una situazione in cui sperare nella solita soluzione diplomatica è illusorio. Con i fanatici dell’Isis non ha senso dialogare. Al massimo, si può tentare di ricompattare davanti al pericolo le due principali fazioni libiche, o meglio ancora cercare di convincere i due Paesi confinanti con la Libia che hanno più da temere dai jihadisti, Egitto e Algeria, a intervenire con le loro forze di terra. Ma dobbiamo tenere conto che il primo non riesce a venire a capo nemmeno della filiale di Isis nel Sinai e la seconda continua a subire gli attacchi di Al Qaeda nel Magreb.

Terzo, non è il caso di riporre grandi speranze nell’Onu, causa i troppi ostacoli: il voto nel Consiglio di Sicurezza, dove Russia e Cina potrebbero mettere il veto; i problemi legali e di finanziamento; la difficoltà di mettere insieme un corpo di spedizione di Caschi blu, specie se si deve fare una vera operazione di guerra. Comunque, se puntiamo su questa carta e siamo davvero disponibili a guidare la spedizione, sarà bene richiamare tempestivamente in patria i nostri migliori reparti attualmente impegnati in Libano, in Afghanistan, in Kosovo, fronti dove l’interesse nazionale non è in gioco . Visti i problemi con l’Onu sarà bene cercare di mobilitare anche la Nato.

Quarto, è arrivato il momento di arginare l’invasione di migranti dalla Libia, perché se arrivano al ritmo di 2.000 al giorno è materialmente impossibile, come ha ammesso lo stesso ministro Alfano, separare i veri profughi da possibili infiltrati della jihad (e impedire che questi si sottraggano subito ai controlli). Con i 13.000 «obbiettivi sensibili» censiti a suo tempo dal Viminale, il Vaticano da proteggere e i precedenti francesi e danesi, bisogna ridurre al massimo i rischi. Teniamo conto che l’opinione pubblica è davvero allarmata, e almeno a giudicare dai commenti agli articoli dei giornali on-line, e non perdonerebbe alla classe politica se, per la sua inerzia, i seguaci del Califfo arrivassero a operare anche in Italia.

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