L’Italia di Expo
In ritardo e di corsa

Si lavora alla luce delle fotoelettriche, migliaia di uomini impegnati in un’immane lotta contro il tempo. I lettori perdoneranno questo attacco di pezzo in stile vecchio giornalismo, quando si scriveva in diretta dai teatri di guerra, o dai luoghi delle peggio catastrofi naturali. Ma casualmente il cronista, vedi un po’ il destino, abita a due chilometri scarsi dal sito di Rho-Pero dell’Expo 2015, e venerdì sera quasi non tornava a casa, avevano da un istante all’altro chiuso superstrade e rotonde.

E ieri mattina quasi da casa non poteva a uscire, code da esodo biblico mentre decine di camion sulla linea nebbiosa dell’orizzonte scaricavano terra e tubi, e le gru agitavano gigantesche braccia di cemento armato. Ogni giorno spunta come un bruco dalla terra un nuovo tunnel, cavalcavia che sembrano fatti con il Lego d’un tratto scavalcano teste e case. Nella «Terra di Mezzo» che presto inghiottirà milioni di turisti prendono forma fantasmagorici (o forse solo bizzarri) padiglioni.

Mancano 47 giorni all’inaugurazione dell’Esposizione universale che Milano aspetta da sette anni e su cui tutta l’Italia ha deciso di scommettere, con molto colpevole ritardo, come volano della ripresa economica. Venerdì il presidente del Consiglio Matteo Renzi è venuto a visitare il sito di Expo, per incitare lavoro e lavoratori. (Vista la situazione, non è da escludere che ci sia arrivato col solito elicottero. Ma questo non si sa). Si sa che ha detto: «Dimostriamo al mondo ciò di cui siamo capaci» e «ce la faremo anche correndo». Soprattutto, ai cinquemila operai che lavorano giorno e notte nell’immenso cantiere, radunati nell’Open Air Theatre, ha parlato con il suo piglio consueto: «Vorrei che in ciascuno di voi ci fosse l’orgoglio di chi sta facendo una grande impresa».

Che i cinquemila operai del sito espositivo e quelli che tutt’attorno lavorano agli stessi ritmi nei cantieri stradali stiano facendo l’impresa, è fuori di dubbio. In bocca al lupo. E in bocca al lupo, con realismo, bisogna dirlo a tutta l’impresa di Expo. Le cose, numeri alla mano e a dispetto dei «gufi», come direbbe Renzi – ai quali si è aggiunto giorni fa anche l’ex governatore Roberto Formigoni, con un’intervista molto critica su tutta la gestione di Expo – non stanno andando male. Sono già stati venduti oltre tre milioni di biglietti, gli organizzatori puntano a cinque volte tanto. Gli sponsor e le adesioni sono arrivati, l’indotto delle aziende corre adesso a pieno ritmo. L’altra grande scommessa che potrebbe essere vinta da Milano è quella, innovativa, della «esposizione parallela», ovvero la grande macchina di eventi, mostre e concerti che sotto il nome di «Expo in città» e con la regia del Comune accompagnerà i sei mesi della manifestazione. Una sorta di «fuori salone» che potrebbe cambiare piacevolmente il volto alla città.

Tutto bene? In verità, non c’è bisogno di abitare a due passi dal sito di Rho-Pero e nemmeno di essere «gufi della tempistica» per fare una considerazione di amaro realismo: perché questa corsa finale matta e disperatissima, se ci sono stati ben sette anni, quasi interamente buttati in scontri politici e incapacità decisionale, per prepararsi al Primo maggio 2015? Matteo Renzi ha detto pure: «L’Expo era sinonimo di scandalo e ora deve diventare sinonimo di ideale». E va bene, paghiamo pure il tributo alla retorica dell’anti corruzione che adesso, come la bandiera rossa, «la trionferà». Ma il problema è anche un altro: siamo un Paese che davanti alle grandi scelte, e ai grandi eventi, non sa mai decidere e governare. Forza, riproviamoci con il Giubileo di Francesco.

© RIPRODUZIONE RISERVATA