E arrivò lo jihadista
della porta accanto

La madre, abituata a rivolgersi alla Caritas per tirare avanti. Il padre, disoccupato ma dignitoso, che non vuol crederci e ringrazia l’Italia per averlo accolto. La preside dell’istituto tecnico, allibita, che lo aveva in quarta classe e lo considerava studente più che da sei. E quelle foto da bravo ragazzo qualunque, da adolescente tipico. Elvis Elezi, uno dei tre arrestati nell’operazione anti terrorismo islamico coordinata dalla Procura di Brescia, è questo.

Ma è anche, se le accuse terranno, un reclutatore dell’Isis, a sua volta forse reclutato dallo zio Alban, finito anche lui in manette. È questo il volto italiano del jihad? Italiano, certo. Possiamo davvero considerare stranieri questi ragazzi cresciuti qui, amici dei nostri figli e a loro uguali? Ma soprattutto possiamo rassegnarci al fatto che il terrore abbia fattezze così domestiche, persino banali? Come il tran tran a scartamento ridotto di Elmahdi Halili, cittadino italiano di origine marocchina, altro arrestato nell’operazione, di giorno apprendista operaio in una ditta di materiali plastici della tranquilla provincia piemontese e la sera traduttore e diffusore dei deliranti proclami del Califfato?

Viviamo, per fortuna su scala ridotta, lo stesso dramma della Francia. I fratelli Couachi e Koulibaly erano francesi trentenni come tanti, turbolenti come tanti, ma armati e feroci come pochi. A noi, oggi, la stessa domanda dei parigini: com’è possibile che dei giovani nati qui, o comunque educati qui e inseriti nella nostra società, possano poi fare simili scelte? Com’è possibile, insomma, che i nostri vicini di casa possano detestarci tanto da adottare un’ideologia che ci vuole schiavi oppure morti? Da dov’è entrato il virus? Dalle famiglie no, quelle di Elvis e di Almahdi sono palesemente estranee all’islamismo e, al massimo, si può «accusarle» della stessa colpa di tante altre famiglie, cioè di non conoscere davvero i propri figli. Dall’ambiente? Nemmeno. Da Internet? Forse. Ma davvero basta sentirsi raccontare che fare la guerra e sgozzare i prigionieri è bello per cascarci?

In realtà, il nostro choc ha le sue ragioni. Nasce da un vecchio istinto, quello di considerare il male comunque diverso da noi, anche a costo di ripetere poi la solita frase: «Ma come, sembrava tanto una brava persona…». E infatti, in questo 2014-2015 passato a preoccuparci dell’Isis, ci siamo immaginati scenari plausibili ma irrealizzati: dai commando di kamikaze annidati nei barconi dei migranti fino alle orde di jihadisti dilaganti in piazza San Pietro. La realtà, come ora vediamo, è molto più inquietante. Questa nostra Europa, che si sente minacciata e fragile, è più facile convincerla che invaderla. Non dimentichiamo che, secondo i dati diffusi dai nostri servizi di sicurezza, sarebbero almeno 50 gli italiani corsi ad arruolarsi nell’Isis per combattere in Siria o in Iraq. Dall’Europa sarebbero partiti almeno in 3 mila, e altri 800 dalla Russia. Mentre al momento, e speriamo si continui così, non ci sono notizie di combattenti esteri infiltratisi in Europa o in Italia.

Il problema dunque è da noi. E non bastano le categorie tradizionali a spiegarlo: non il presunto fascino del jihadismo né una certa retorica sull’integrazione mancata delle periferie o dei «seconda generazione». C’è qualcosa di più. Riguarda forse la crisi economica ma anche quella morale di un’Europa che ha paura dei propri cromosomi (ricordate il dibattito sulle radici cristiane del Continente? Quanto ci sarebbero utili, adesso…) e, per voler esser tutto, finisce con esser nulla. O la stagnazione dell’ideale europeo, che sarebbe un bel segnale identitario e un ottimo antidoto all’atomizzazione sociale e culturale di cui soffriamo. Ma è un elemento sfuggente e tutto da scoprire. Come ciò che passa nella testa di una adolescente quando la sera si chiude in camera e accende il computer.

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