Lorenzo Lotto
scrittore e psicologo

La scrittura è stata una componente fondamentale nell’opera e nella vita di Lorenzo Lotto. Questo spiega perché la sua personalità sia eccezionalmente ben documentata per un pittore italiano del Cinquecento, e in particolare per un veneziano. Certo non può definirsi, rispetto ad altri artisti, uno scrittore a tutto tondo, come nel caso di Michelangelo, rimatore eccezionale, o come Leonardo Da Vinci con i suoi ottomila fogli di appunti, o venendo a tempi più vicini a noi, Filippo De Pisis e Alberto Savinio. Tuttavia per Lotto la scrittura epistolare è stata molto più di un semplice strumento di comunicazione funzionale.

Ma che cosa cerchiamo nelle lettere di un artista? Chi se ne occupa per mestiere cerca qualcosa che lo aiuti a perfezionare la conoscenza delle opere: una circostanza, la figura reale che ha ispirato un personaggio, la soluzione di un mistero interpretativo. La maggior parte dei lettori però non è interessata a questo: non cerca una soluzione, cerca l’autore – la sua vita, la sua voce, il suo carattere. Può farlo per curiosità, per verificare se il profilo che ne ha ricavato dai dipinti (il cosiddetto «autore implicito») corrisponde alla persona «vera»; oppure per passione, per capire quel che l’autore ha provato e vissuto, e misurare i suoi sentimenti sui propri. Quando interviene questa pretesa di condivisione, le lettere cessano di essere solo un documento utile e diventano interessanti di per sé, come frammenti di un’esperienza che è realmente stata e che perciò poteva, potrebbe essere anche la nostra. Questo accade anche leggendo le lettere e gli scritti di Lorenzo Lotto, perché attraverso le parole egli ha dato forma al proprio immaginario, ci ha detto cosa fosse per lui la vita.

Se oggi possiamo definire questo artista un «pittore moderno», lo dobbiamo anche alle tracce scritte che ci ha lasciato, a cominciare dalle trentanove lettere inviate da Venezia ai governatori dell’allora «Consorzio della Misericordia» di Bergamo (l’attuale Fondazione Mia). Queste lettere non solo testimoniano in modo minuzioso le tappe del lungo lavoro di realizzazione delle tarsie di Santa Maria Maggiore e le questioni pratiche dell’incarico, ma forniscono dati preziosi sulla sua indole («un pittore inquieto della mente»): la sua suscettibile ipersensibilità, il suo umore ansioso e irrequieto, ma anche il suo affetto per l’intarsiatore Giovanni Francesco Capoferri, oltre a rintracciarvi gli echi di quel profondo fervore religioso che caratterizza le sue opere devozionali. In questi scritti egli parla di sé, delle sue vicende sfortunate, della sua arte («Ho rassettato li doi disegni con gran impaccio… acomodar le istorie alla gratia de esse… etiam per la libertà datami… circha li disegni de li coperti, sapiate che son cose che non essendo scritte, bisogna che la imaginatione le porti a luce». Venezia, 10 febbraio 1528).

Lotto dunque è un pittore moderno perché anche attraverso la scrittura è stato uno dei primi a dirci quanto è complesso l’animo dell’uomo. Come ha scritto Bernard Berenson: «Lorenzo Lotto, diversamente dagli altri artisti del suo tempo, è psicologo. È anche intensamente personale. Ma queste qualità sono solo aspetti diversi della stessa cosa, che significa dal punto di vista psicologico un interesse per la personalità degli altri».

In pittura egli è stato inventore dell’ambiguità, dell’incertezza dei sentimenti, che è riuscito a descrivere partendo dalle piccole cose (i gioielli, per esempio, nelle figure di Lotto a volte rivelano molto più delle espressioni facciali). Questa attenzione si ritrova anche nella sua lingua, mai banale, variegata nella scelta dei vocaboli e precisissima nel nominare le cose, nel descrivere le sfumature dei propri pensieri. Ricchi appaiono anche i registri della sua lingua, in alcuni punti persino con iperboli comiche: come nel passaggio di questa lettera, pur all’interno di un tono profondamente e pateticamente desolato: «Siché havendo io tenuto bon et diligente cunto per proprio amore et interresso penso non haver errore. Tuta volta quando uno, doi e tre dice al vivo esser morto, deve haver l’homo gran rispeto de vivere et dubitare de non essere, sichè io me sottometto facilmente essere correto, per danni che me fusse et vergogna; mi pigliaria ogni penal sentencia più presto che ostinarmi in alcuna maniera: vedasi poi como se voglia» (Venezia, 6 marzo 1532).

Le lettere inviate al Consorzio ci rivelano anche quanto le sue opere (nella fattispecie i disegni per le tarsie) nascessero prima nella propria mente e l’esecuzione materiale fosse il punto di arrivo, la tappa finale di un lungo lavoro preparatorio dentro di sé. Come ha osservato Luigi Chiodi, a cui molto si deve la riscoperta e l’esegesi delle lettere lottesche: «Il Lotto ad ogni frase rivela uno stile artigianale inconfondibile: i tempi, i modi, le finalità del suo lavoro, le stesse osservazioni d’arte, le stesse affermazioni che più parrebbero impegnare ispirazione e procedimenti, ci spalancano d’innanzi qualcosa di casalingo, modesto, da piccola bottega, nella quale il maestro è anche discepolo (le sue vicende coi garzoni furono spesso tragicomiche), senza le aperture, i programmi, non diciamo l’attrezzatura, l’organizzazione, la mentalità di chi ha imparato il mestiere di maestro».

I dettagli nella sua scrittura, ma anche nel suo lavoro pittorico, aprono sentieri sconosciuti, cammini traversi, creano un’intimità con la persona dell’artista. Perché i dettagli sono la vera ossessione di Lotto, e queste lettere portano alla luce l’attenzione maniacale che l’artista veneziano aveva verso il proprio lavoro e le proprie emozioni. Questa sua ossessione egli è riuscito a trasferirla anche a molti spettatori dei suoi dipinti, a cominciare da quel soldato che durante l’occupazione di Bergamo, nel 1528, «invaghito» – racconta Carlo Ridolfi – del paesaggio del Monte Sinai sullo sfondo delle «Nozze mistiche di Santa Caterina», «lo tagliò dal quadro». E forse anche all’osservatore contemporaneo i quadri di Lotto attirano soprattutto per i dettagli, perché qui il pittore sembra dare il meglio di sé, esprimendosi in maniera totalmente libera, lasciandosi andare alla sua vena ironica e sarcastica.

Anche nel «Libro di spese diverse», tenuto negli ultimi anni di vita, scritto di proprio pugno, dove ha annotato la grandiosa asta che fu costretto ad allestire per vendere le opere rimaste in bottega, nonché le spese sostenute per riuscire finalmente a tornare nelle Marche, Lorenzo Lotto non utilizza mai una lingua banale o sciatta.

Tutto è indicato in maniera millimetrica, al limite della maniacalità (anche qui rivelatrice della sua personalità), attraverso l’uso di termini scelti in modo preciso e secondo un ordine ritmico che appare tutt’altro che casuale («rubon, zupon, cappe, calzon» o ancora: «berete, scarpete, strenghe, calzete e zocolj»). Gli intarsi e i panneggi del suo periodare, complesso e ricco di metafore, sono composti con le stesse materie di pregio della sua pittura. Una lingua con la quale Lotto ha saputo scavare dentro l’animo umano, il proprio prima di tutto.

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