L’Ungheria dei muri
solidale col bancomat

Per fortuna c’è un giudice a Berlino, nel nostro caso a Roma. Alla vigilia del referendum in Ungheria sulla ripartizione delle quote di rifugiati nell’Ue, il Consiglio di Stato italiano ha accolto il ricorso di un richiedente asilo, bloccandone il trasferimento a Budapest. Ciò che non fa la politica, lo fanno i magistrati. Per la prima volta un tribunale del nostro Paese, attraverso i giudici amministrativi, ha censurato una deriva tristemente nota: nella terra del nazionalista Orbàn il trattamento che colpisce questa umanità (persone in fuga dalla guerra, non immigrati illegali) può risultare in contrasto con i principi umanitari e con la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.

Lo scivolamento verso il basso dell’Ungheria è già sotto infrazione da parte di Bruxelles, ciò non toglie che la sentenza colmi un vuoto: la reazione comunitaria rimane comunque ancora inadeguata dinanzi allo scempio del diritto e troppo debole rispetto alla severità riservata agli aggiustamenti dei parametri economici. Con il referendum di oggi – la cui legittimità è dubbia, visto che gli effetti riguardano un trattato internazionale – il governo ultraconservatore chiede agli elettori se vogliono che «l’Ue, senza l’autorizzazione del Parlamento, possa imporre l’insediamento obbligatorio di cittadini stranieri».

L’affermazione del «no» è data per sicura, per quanto si stiano moltiplicando le proteste dell’altra Ungheria, che si dimostra all’altezza di una grande storia calpestata dalla propria classe dirigente. La questione riguarda una quota irrisoria, che non arriva a 1.300 profughi, su un totale di 160 mila da distribuire da Grecia e Italia verso gli altri Paesi dell’Unione.

Orbàn è il premier che, mentre la Merkel apriva ai siriani, ha fatto costruire un muro di filo spinato per fermare i migranti al confine con la Serbia. Il muro ha inaugurato la filiera della vergogna, delle fortezze autarchiche, con un effetto domino specie nel Nord Europa, i cui costi saranno pagati dall’Italia dopo il blocco della rotta balcanica seguito all’accordo fra Germania e Turchia. Ma quel che più stona è il progressivo ripiegamento protezionista, questo brutale ritorno al passato che lede i diritti naturali della persona e offende la dignità umana. L’indignazione di ieri s’è fatta indulgenza verso le pratiche xenofobe, diventando il nuovo senso comune che fa cassetta: in fondo questi capipopolo non sapranno stare a tavola, ma ci sanno fare. L’Europa dei grandi passi indietro, di una stagione che non merita rimpianti: quando i poveri (gli immigrati di oggi) erano una questione di ordine pubblico, quando il protezionismo copriva una storia infausta. Il premier ungherese è il teorico della «democrazia illiberale» alla maniera di Putin e, con la Polonia della destra di Kaczynski, tiene in ostaggio l’Ue. La consultazione di oggi ha una dimensione eversiva, perché mette in discussione decisioni comunitarie vincolanti: del resto l’obiettivo dichiarato della coppia di ribelli è una «controrivoluzione culturale» per rivedere radicalmente le politiche decise a Bruxelles.

Ieri su «Avvenire» il direttore Marco Tarquinio parlava di «indecente misura». Nel ricordare che questa Ungheria s’è data una Costituzione in cui si rivendica la «virtù unificatrice della cristianità» e si dichiara di «dovere aiutare i poveri e gli indigenti», sottolinea quanto sia sgradevole la prassi: «La cronaca – precisa Tarquinio – si è incaricata di quantificare con impietosa chiarezza la differenza tra una vita degna di accoglienza e una vita da rifiutare: 300 mila euro».

Quella cifra è il salario del populismo selettivo ungherese: pagando 300 mila euro a un fondo di Stato, un extracomunitario ottiene il soggiorno illimitato ed è quanto hanno fatto dal 2013 circa 10 mila persone, soprattutto russi e cinesi ricchi.

Dunque: porte sbarrate ai profughi, ma porte aperte a chi paga. I soldi non puzzano: come spesso capita, la difesa della fortezza nazionale dispensa la poesia per incassare la prosa. Questo vale da Londra a Budapest e a Varsavia: gli inglesi dopo la Brexit fanno melina e non vogliono saldare i conti, ungheresi e polacchi fanno la faccia truce con l’Europa, senza però toccare i miliardi dei fondi strutturali di Bruxelles che hanno sostenuto l’economia dell’Est.

Nel frattempo il ritorno di fiamma degli Stati nazione ha contribuito alla frenata del commercio internazionale, che per la prima volta in 15 anni cresce meno dell’economia. L’Europa populista, quella della solidarietà del bancomat, individuato il capro espiatorio, ha trovato un tesoro.

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