Mastella assolto
La giustizia s’interroghi

Nelle democrazie la qualità della giustizia si misura principalmente in base all’aderenza dell’azione della magistratura ai canoni di quella che si usa definire «civiltà giuridica»: rispetto dei diritti dei cittadini, tempi delle sentenze, equità dei giudizi. Tali presupposti acquistano ancora maggior peso nell’ambito della giustizia penale, poiché – su quel terreno – sono in questione alcuni principi fondamentali del diritto moderno, acquisiti nell’arco di millenni, tra i quali la libertà personale, la presunzione di innocenza, il diritto alla difesa, la non coercizione. Tutti aspetti correlati – e nel contempo potenzialmente antitetici - alla potestà della magistratura di imporre limitazioni proprio alla libertà di un cittadino imputato di un reato.

Ogni valutazione su ciascuno degli elementi che concorrono a comporre un quadro di giustizia «giusta» diventa insignificante di fronte al Moloch costituito dalla lunghezza dei processi. Il caso di Clemente Mastella, assolto (in primo grado!) dopo nove anni dai reati contestati e sei dal rinvio a giudizio mostra la gravità del problema. La vicenda ha fatto clamore, sia per la notorietà dell’accusato (allora parlamentare e oggi sindaco di Benevento), sia per la ricaduta politica che essa ebbe, allorché Mastella risultò indagato per concussione e associazione a delinquere, reati gravissimi per un uomo politico. Negli anni il castello accusatorio si è via via sbriciolato fino all’assoluzione dell’imputato. La vicenda, occorre sottolineare, non ha carattere di eccezionalità, poiché – nonostante lievi miglioramenti – i tempi della giustizia italiana risultano spaventosamente dilatati, estranei a ogni ragionevolezza.

Sulle cause della lentezza della giustizia la differenza di opinioni si colloca sempre più al livello della rissa. Al di là di ogni considerazione di parte è innegabile che la mancata risoluzione del problema ricada sui cittadini, sui quali incombe la spada di Damocle costituita dal rischio di essere indagati e rinviati a giudizio con l’incubo di un processo che vedrà il suo esito molti anni dopo. In presenza di un quadro così preoccupante, interrogarsi sugli aspetti di tali distorsioni è quanto meno doveroso, per capire se la giustizia malata non finisca per ledere i diritti dei cittadini. L’azione della magistratura – in specie delle Procure – dovrebbe sempre essere improntata alla massima cautela. In particolare i pubblici ministeri, i quali hanno l’obbligo costituzionale dell’azione penale in presenza di una «notitia criminis», dovrebbero costantemente sentire l’obbligo morale, prima ancora che giuridico, di rifuggire dalla facile pratica delle reiterate dichiarazioni alla stampa, della disinvoltura nel facilitare nell’opinione pubblica la rapida costruzione del «mostro» prima ancora che si celebri un processo. Tali atteggiamenti, occorre dirlo, sono diventati quasi la normalità e, in alcuni casi, uno sgabello per pervenire a una notorietà finalizzata al successo personale.

Ancor più spinoso è il versante della responsabilità. Il mestiere di magistrato (vale per i pubblici ministeri come per i giudici) è indubbiamente difficile e, comunque, sottoposto a pressioni di vario tipo. Pressioni che – anche quando non assumono carattere indebito – possono incidere sulla serenità del giudizio. Ma, ciò nonostante, gli errori, in specie quelli gravi che hanno ripercussioni sulla vita altrui, devono avere sanzione effettiva ed efficace. La responsabilità civile dei magistrati deve diventare un cardine di tutela della società nei casi di lesa giustizia e uno strumento utile a migliorare l’operato della magistratura Se un chirurgo uccide un paziente è chiamato a risponderne. Uguale logica deve valere per «l’errore giudiziario», poiché il magistrato – chiamato a giudicare secondo i canoni della legalità – non può ritenersi sottratto alle responsabilità derivanti dal suo ruolo nella società.

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