Milano locomotiva
di un’Italia spaccata

Dal 2014 al 2016 il Pil nazionale è cresciuto dell’ 1,8% quello di Milano del 3,9%. Bastano questi dati di Assolombarda, l’associazione degli industriali della Lombardia, per spiegare come la locomotiva economica del Paese abbia ricominciato a tirare. Il Pil lombardo è cresciuto in questi due anni del 2,8% in linea con la media europea. Se l’Italia a fatica tiene ancora le posizioni di secondo Paese manufatturiero d’Europa, se si colloca settima nel mondo (nel 2015 era ottava), con una quota del 2,3%, dimezzata rispetto al 2007 ma quanto basta per essere davanti a Francia e Gran Bretagna, se è ottavo nell’export dei manufatti per effetto del recente deprezzamento della sterlina, tutto questo è perchè c’è un’Italia che lavora. Sulla linea Torino-Trieste da ovest ad est e da Bolzano a Bologna da nord a sud si segna una linea di confine tra l’Italia produttiva e un Paese ancora in ritardo.

Questo dovrebbe indurre a maggiore consapevolezza le classi dirigenti del Nord Italia , le quali storicamente hanno sempre guardato alla politica con un certo disgusto, convinti che alla fine erano i «danè» a contare. Un retaggio che viene dal passato quando il Lombardo Veneto era occupato dagli austriaci e ai lombardi veniva solo chiesto di fare «filè fa el tò mesteè» perché al resto ci pensava l’amministrazione dell’imperatore. La quale, va pur detto, era efficiente e non costellata da scandali di nepotismo e corruzione endemica. L’operatore economico si sentiva quindi protetto da regole certe e fatalmente indotto a non occuparsi di politica. Dopo l’unità d’Italia è rimasto una sorta di riflesso condizionato che ha indotto in tutti questi anni i ceti lavoratori ad occuparsi, peraltro con successo, dell’attività manifatturiera, dei mestieri e delle libere professioni. Così la pubblica amministrazione è lasciata a chi non ha un’attività economica alternativa, alla parte più povera del Paese ed al contempo a quella che, tranne esemplari eccezioni, ha meno senso dello Stato e concepisce il posto pubblico come una prebenda. Fanno testo in merito i libri di Sabino Cassese, il più noto e apprezzato esperto di amministrazione pubblica d’Italia.

Tutti i tentativi di industrializzare il Mezzogiorno sono falliti e le cattedrali nel deserto abbandonate a se stesse segnano ora il degrado ambientale di zone che sarebbero ora una ricchezza in chiave turistica. Perché il Sud d’Italia ha un suo tesoro che tutti colgono, dal poeta tedesco Goethe in poi, appena hanno la fortuna di conoscerlo. E sono le sue bellezze naturali. Complice il G7 di Taormina in Sicilia vi è stato un boom di visitatori, Modica nel ragusano registra una crescita del 13,5% di turisti, ma poi se si guardano i dati solo un turista su sette va nel Mezzogiorno e questo nonostante i Paesi concorrenti, da Egitto a Tunisia alla Turchia siano in crisi di arrivi per le note ragioni politiche e di presenza terroristica. Nel 2016 sembra siano addiritture calate del 7,2%. E tutto questo con un aumento mondiale che passa dai 235 milioni di presenze turistiche del 1985 agli attuali un miliardo e 235 milioni.

Insomma è forse il caso di dire che la fortuna passa sotto il naso e la si lascia scappare. E del resto com’è possibile dar spazio a nuova imprenditoria, pensiamo alle start up per esempio, se poi il territorio è controllato dall’organizzazione criminale di turno che strangola ogni iniziativa ispirata al libero mercato. È un soffocamento morale prima ancora che economico al punto che gli imprenditori, e ce ne sono, che non mollano poi alla fine finiscono con essere sotto scorta, prigionieri a casa loro. «Gli industriali devono comunicare al Paese una visione strategica dei problemi» lo dice Carlo Bonomi, presidente di Assolombarda. È l’auspicio di tutti gli italiani di buona volontà.

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