Ministro in bilico
Equilibri fragili

Con la mediazione del presidente del Consiglio Giuseppe Conte, leghisti e grillini hanno finalmente trovato un compromesso tra loro e con il ministro dell’Economia sulle nomine al vertice della Cassa depositi e prestiti. Sul risultato dell’intesa raggiunta a Palazzo Chigi sono subito scattate le interpretazioni su chi abbia vinto e chi perso in una partita di potere che si trascinava da settimane: secondo gli esperti, Tria avrebbe «ceduto» ad un nome gradito a Di Maio come amministratore delegato della Cdp in cambio di mano libera nella nomina del direttore generale del Tesoro, il burocrate più importante del suo ministero (una carica occupata da Mario Draghi all’epoca di Ciampi). Chissà.

Sta di fatto che sul vertice di un organismo che un tempo era sconosciuto ai più e che adesso sembra diventata una reincarnazione della vecchia Iri, il tira-e-molla tra partiti e ministro ha messo in luce ancora una volta una seria asimmetria tra il professor Tria e i partiti della coalizione, tra quel che dice il ministro e quanto compare nel novero delle promesse elettorali della Lega e del Movimento Cinque Stelle. Una asimmetria cresciuta nel tempo al punto che proprio nelle ultime ore si era diffusa l’indiscrezione di possibili dimissioni del successore di Padoan, un evento (ieri sdegnatamente smentito) che avrebbe riportato l’Italia nella bufera della speculazione finanziaria e messo in dubbio la credibilità internazionale del governo, almeno in Europa e tra gli investitori d’Oltreoceano.

Non è un mistero che a Bruxelles si guardi a Tria e al suo collega degli Esteri Moavero Milanesi come a testimoni di una certa continuità istituzionale di cui si è fatto garante il Capo dello stato in prima persona all’epoca della formazione del governo. L’uscita di Tria dalla compagine governativa sarebbe stato un colpo molto duro da assorbire, gli spread avrebbero ricominciato a volare e si sarebbe ripresentato il rischio di un ministro no-euro al posto dell’ex preside della facoltà di Economia dell’Università Tor Vergata di Roma. Ma tutto questo, almeno per il momento, è stato scongiurato.

Resta il fatto che c’è una forte irritazione politica tra leghisti e grillini perché al ministero dell’Economia sembra che si sia messo il rallentatore alle promesse più eclatanti della politica economica giallo-verde: sia la flat tax che il reddito di cittadinanza nelle dichiarazioni di Tria appaiono come «obiettivi di legislatura», qualcosa cui si può tendere in tempi medio-lunghi, sempre naturalmente che si verifichino le condizioni finanziarie.

Cautela, prudenza, ragionevolezza continuano a caratterizzare la pratica amministrativa di via XX Settembre. La difesa della tenuta dei conti pubblici è stata dall’inizio, e non avrebbe potuto essere diversamente, il cardine del lavoro del prof. Tria anche a scapito delle speranze grillo-leghiste di maggiore flessibilità da ottenere in sede comunitaria. Sarà un caso ma le dichiarazioni assai bellicose di Salvini sulle regole europee da scompaginare in materia di compatibilità finanziarie negli ultimi tempi si sono affievolite, probabilmente perché il Tesoro continua a frenare.

C’è però da notare che non manca ormai molto tempo alle elezioni europee, il primo vero banco di prova della maggioranza, e per la prossima primavera il governo dovrà aver prodotto qualche risultato economico percepibile dal suo elettorato. Per il momento in ballo c’è solo il decreto Dignità di Di Maio che però ha raccolto più critiche che elogi. A cominciare da quelle espresse dall’Inps e dalla Ragioneria Generale. Riserve da cui Tria ha preso le distanze con un gesto distensivo ma ai più apparso puramente tattico e diplomatico. La partita insomma continua.

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