Misericordia più forte
del cinismo dei politici

Si è inchinato davanti ai Rohingya e ha fatto quello che nessuno nella comunità internazionale finora aveva mai osato: chiedere perdono per le omissioni. Papa Francesco torna a Roma alla fine del suo 21° viaggio internazionale, uno dei più complicati, difficili e delicati. E ancora una volta dimostra che la «diplomazia della misericordia» può vincere sul cinismo politico, sulle geopolitiche dell’esclusione e sulle propagande incrociate in nome della realpolitik diplomatica e religiosa. Ai Rohingya ha riservato il posto d’onore che il Vangelo assegna a chi è perseguito ed oppresso senza distinzione di razza o di fede.

Così il gesto che una ragazza rohingya, a cui hanno sterminato l’intera famiglia, ha compiuto davanti al Papa a Dacca, sollevando il velo nero che le ricopriva il volto, assume un significato simbolico straordinario. C’è solo un uomo che merita tanta stima fino al punto di un cambio radicale della propria tradizione religiosa. Bergoglio ha parlato molto chiaro al resto del mondo. Ha chiesto misure efficaci verso un popolo dimenticato da tutti, che non può più vivere sballottato qui e là tra Birmania e Bangladesh preda dei capricci e dei decreti di una geopolitica che basa la sicurezza di alcuni sull’emarginazione e l’oblio di altri. Né una soluzione può essere la buona volontà dimostrata dal già poverissimo Bangladesh che negli ultimi mesi ha dovuto farsi carico del dramma umano di centinaia di migliaia di persone. Il rischio è quello di costruire cittadelle di rifugiati e di profughi che poi nessuno è più in grado di smantellare con costi sociali altissimi e massimo discredito per la dignità umana. Eppure è quello che accade in Asia, in Medio Oriente e in Africa quando qualcuno comincia ad elaborare la teoria che c’è uno buono e un altro cattivo.

È contro questa mentalità presuntuosa che Bergoglio tesse la tela della sua geopolitica della misericordia in ogni tappa internazionale. Lo ha fatto in Birmania sottolineando che la considerazione virtuosa della complessità delle etnie deve diventare strumento strategico della loro integrazione, indispensabile nella costruzione di una democrazia reale. Viceversa la discriminazione dei gruppi etnici, soprattutto di quelli minoritari, resterà un male acuto a disposizione degli sporchi giochi degli interessi economici e nessun processo di pace interna sarà possibile. La situazione politica del Myanmar è delicatissima e Papa Francesco è stato molto attento a non offrire pretesti per un’interpretazione fasulla delle sue parole. Ha incontrato i militari, che continuano pesantemente a condizionare il processo di pace, ma allo stesso tempo ha legittimato l’autorità morale del Premio Nobel della pace San Suu Kyj e dalla sua road map di integrazione di tutte le etnie, «nessuna esclusa», ha precisato il Pontefice.

In Birmania i militari e San Suu Kyj considerano ognuno ingombrante la presenza dell’altro. E l’esercizio più diffuso è quello di delegittimarsi, richiamando conflitti antichi, contrasti mai sopiti tra le etnie del Paese, che così trovano valvole di sfogo in dispute perenni, pronte a infiammarsi per poca cosa, anche le più banali. Bergoglio ha parlato di unità nel rispetto delle tradizioni culturali e religiose, ha messo in guardia dall’uniformità e ha spiegato che nessuna comunità può sopravvivere e progredire nell’isolamento. Ha utilizzato praticamente in ogni discorso il concetto di armonia che la cultura dell’Asia è in grado di declinare sul piano politico, religioso e sociale. Ha parlato di «amicizia sociale» come antidoto alla instabilità, perché quando le cose traballano, quando qualcuno spezza l’armonia per paura di invasioni o di conquiste o quando qualcuno grida al complotto contro presunte purezze nazionali o religiose, è allora che si apre la strada ai fondamentalismi. E il prezzo più alto lo pagheranno comunque i poveri.

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