Non basta l’onestà
per governare

Gli eventi dello scorso secolo si erano già incaricati di smentire la profezia di Lenin, che immaginava uno Stato nel quale potessero governare anche le casalinghe. Non è mai stato così. Non nelle società democratiche. Anche nei momenti cruenti di rivolgimenti politici nati da insurrezioni, il governo della «cosa pubblica» è sempre stato rapidamente assunto (o riassunto) da coloro che avevano gli strumenti culturali e conoscitivi per far funzionare le istituzioni e per definire le regole della convivenza civile.

Alla base del governare vi è un insieme di fattori che si può riassumere in una parola: politica. Termine che in Aristotele connotava sia l’esigenza propria degli esseri umani di convivere in forma associata, sia la ricerca di modalità in grado, almeno tendenzialmente, di garantire il vantaggio di tutti i cittadini. Fare politica significa sapersi prendere cura degli interessi generali, sia pure (anzi, necessariamente, per certi versi) ponendosi come parte.

Circostanza che implica, a sua volta, avere ideali sulla base dei quali indirizzare l’azione del governare; possedere una visione del mondo che permetta di identificare priorità; essere in grado di valutare i criteri che collegano i fini ai mezzi. Infine, avere un bagaglio di conoscenze adeguate ai compiti che si viene chiamati a svolgere o (nel caso di rivoluzioni) che ci si autoassegna in quanto portatori e propugnatori di un «ordine nuovo».

Le vicende del comune di Roma dimostrano con palese, dolorosa, evidenza che la gran parte di questi elementi è assente nell’azione della giunta guidata da Virginia Raggi. La sequela di infortuni inanellata in questi mesi – oltre a produrre una sostanziale paralisi nel governo della città – ha messo in mostra in modo lampante il vuoto di cultura politica (intesa nel senso più alto del termine) della giunta pentastellata. Il valzer delle nomine, le revoche, le dimissioni e le riimmissioni, l’opacità di molte scelte, la pochezza di parte delle persone chiamate a ruoli di rilevante responsabilità e perfino le vicende giudiziarie che pesano sul capo di alcuni esponenti chiamati a dirigere settori chiave dell’amministrazione capitolina passano quasi in secondo piano rispetto al deserto di cultura politica del partito al quale gli elettori hanno dato il compito di governare la capitale del Paese.

Di fronte al balbettio progettuale e al disastro operativo della giunta, gli esponenti di vertice dei CinqueStelle – quando non si trincerano dietro il silenzio – minimizzano, parlando di ingenuità o giustificano le carenze dell’azione comunale, facendole derivare dall’inesperienza. Il più delle volte sindaco e assessori si sono autoassolti, rimarcando la loro onestà. Se pur si evita di ricordare come questo argomento cominci a mostrare diverse falle, è facile argomentare che l’onestà è soltanto un presupposto del fare politica. Una condizione importante, necessaria ma non sufficiente. Anche perché l’onestà non sorretta da competenze adeguate è, nei fatti, ostaggio della disonestà. I politici onesti ma sprovveduti diventano presto facile preda dei peggiori politicanti.

A Roma l’inadeguatezza a gestire la complessa macchina politico/amministrativa ha vanificato in radice anche la presupposta buona volontà di ben governare. Cosa c’è, infatti, di più difficile del sapersi prendere cura degli interessi generali? Cosa c’è di più arduo del decifrare ragioni, elementi, meccanismi indispensabili a fornire risposta alla molteplicità delle esigenze di una comunità?

Non basta né la buona volontà, né il buon senso, occorre ben altro. Servono competenze di carattere giuridico/amministrativo; occorre un’attrezzatura di conoscenze in grado di affrontare i grovigli dell’azione pubblica; è indispensabile una dose non insignificante di esperienza nella gestione di apparati pubblici.

Soltanto a queste condizioni è possibile tentare di governare. Naturalmente, l’onestà, la caratura etica, la volontà di cambiamento, persino una dose di spinta visionaria, sono fattori utili. Ma dalle competenze non è possibile prescindere. Perché governare è anche un’arte, che si impara tra gli artisti e facendo bottega. Illudersi di cambiare la cattiva politica senza gli strumenti propri della politica non è soltanto un’illusione, finisce per diventare un raggiro nei confronti dei cittadini e degli elettori. La cattiva politica si batte attraverso la buona politica, non con la bandiera dell’antipolitica.

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