Olocausto, dimenticare
non rende uomini

Alla campana, si è sentito il campo buio ridestarsi. Improvvisamente l’acqua è scaturita bollente dalle docce, cinque minuti di beatitudine; ma subito dopo, irrompono quattro (forse sono i barbieri) che, bagnati e fumanti, ci cacciano con urla e spintoni nella camera attigua, che è gelida; qui altra gente urlante ci butta addosso non so che stracci, e ci schiaccia in mano un paio di scarpacce a suola di legno, non abbiamo il tempo di comprendere e già ci troviamo all’aperto, sulla neve azzurra e gelida dell’alba, e, scalzi e nudi, con tutto il corredo in mano, dobbiamo correre fino ad un’altra baracca, a un centinaio di metri. Qui ci è concesso di vestirci. Quando abbiamo finito, ciascuno è rimasto nel suo angolo, e non abbiamo osato levare gli occhi l’uno sull’altro. Non c’è ove specchiarsi, ma il nostro aspetto ci sta dinanzi, riflesso in cento visi lividi, in cento pupazzi miserabili e sordidi. Eccoci trasformati nei fantasmi intravisti ieri sera.

Allora per la prima volta ci siamo accorti che la nostra lingua manca di parole per esprimere questa offesa, la demolizione di un uomo. In un attimo, con intuizione quasi profetica, la realtà ci si è rivelata: siamo arrivati al fondo. Più giù di così non si può andare: condizione umana più misera non c’è e non è pensabile. Nulla è più nostro: ci hanno tolto gli abiti, le scarpe e anche i capelli; se parleremo, non ci ascolteranno, e se ci ascoltassero, non ci capirebbero.

Ci toglieranno anche il nome: e se vorremo conservarlo, dovremo trovare in noi la forza di farlo, di fare sì che dietro al nome, qualcosa ancora di noi, di noi quali eravamo, rimanga.

Noi sappiamo che in questo difficilmente saremo compresi, ed è bene che così sia. Ma consideri ognuno, quanto valore, quanto significato è racchiuso anche nelle più piccole nostre abitudini quotidiane, nei cento oggetti nostri che il più umile mendicante possiede: un fazzoletto, una vecchia lettera, la fotografia di una persona cara. Queste cose sono parte di noi, quasi come membra del nostro corpo; né è pensabile di venirne privati, nel nostro mondo, poiché subito ne ritroveremmo altri a sostituire i vecchi, altri oggetti che sono nostri in quanto custodi e suscitatori di memorie nostre.

Si immagini ora un uomo a cui insieme con le persone amate, vengano tolti la sua casa, le sue abitudini, i suoi abiti, tutto infine, letteralmente tutto quanto possiede: sarà un uomo vuoto, ridotto a sofferenza e bisogno, dimentico di dignità e discernimento, poiché accade facilmente, a chi ha perso tutto, di perdere se stesso; tale quindi, che si potrà a cuor leggero decidere della sua vita o morte al di fuori di ogni senso di affinità umana; nel caso più fortunato, in base ad un puro giudizio di utilità.

Si comprenderà allora il duplice significato del termine «Campo di annientamento», e sarà chiaro che cosa intendiamo esprimere con questa frase: giacere sul fondo.

* Tratto da Primo Levi, Se questo è un uomo - Einaudi editore

In occasione della Giornata della «Memoria» riproponiamo un brano tratto dal romanzo autobiografico di Primo Levi «Se questo è un uomo», in cui l’autore racconta le sue esperienze nel lager di Auschwitz. Il libro di Levi - agghiacciante testimonianza della prigionia nei campi di concentramento nazisti - è una delle opere più celebri sull’Olocausto e la sua pubblicazione venne più volte rifiutata. «L’uomo che non ha memoria - diceva Mario Rigoni Stern - è un pover’uomo». Ricordiamocelo. Per non dimenticare.

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