Papa Bergoglio
Missione per la pace

Il viaggio in due tappe di Jorge Mario Bergoglio sul fronte del Caucaso lascia a quelle terre e al mondo intero un messaggio perfetto per ogni religione e per ogni geopolitica. È l’invito a non mettere al primo posto in ogni discussione le divisioni. Vale per tutti. E il messaggio del Papa è stato rinforzato dalle parole dell’arcivescovo ortodosso di Baku: «Le nostre divisioni non arrivano al cielo». Non era un viaggio facile, perché le tensioni qui da sempre hanno caratterizzato sia lo spazio sia il tempo. Ci sono quelle religiose e ci sono quelle squisitamente geopolitiche. Ed era chiaro fin dall’inizio che né per le une, né per le altre le soluzioni sono facili.

Eppure Papa Francesco è riuscito a indicare una strada che può portare almeno all’allentamento delle tensioni e forse alla soluzione dei conflitti. Non è una vera e propria road map diplomatica ed ecumenica. È piuttosto un metodo, che ha indicato con le parole e i gesti. Ha a che fare con l’attenzione alle persone nell’ordinario della vita quotidiana, cosa ben più importante dei riti e delle formalità ed anche delle agende, perché è nell’incontro personale che si crea una cultura della pace e del dialogo ed è da lì che nasce la speranza per cose nuove.

Bergoglio in Georgia e in Azerbaijan e prima ancora a giugno in Armenia è andato a tendere la mano. È il gesto che viene prima di ogni mediazione. È la premessa alla volontà del compromesso virtuoso per il bene della gente di ogni azione geopolitica.

Anche quando ha parlato, stupendo molti, di famiglia, matrimonio e gender non ha attaccato teorie. Ha chiesto di ragionare rispetto a prese di posizione ideologiche di ogni segno che colonizzano e stravolgono l’esperienza umana.

Lo stile del Papa è quello della discussione pacata, ma contemporaneamente chiara, metodo per scuotere coscienze e riflessioni di intellettuali. E ha colto nel segno. Oltretutto il tema della famiglia e i rischi a cui va incontro sono terreno comune di analisi con le Chiese dell’ortodossia e le sue parole sono state un’altra mano tesa. Bergoglio ben sapeva di andare in una periferia problematica anche del dialogo ecumenico.

La Chiesa ortodossa della Georgia è assai orgogliosa e rigorista. Gli ortodossi georgiani non riconoscono neppure il battesimo degli altri cristiani. Probabilmente la Santa Sede, quando è stato organizzato il viaggio molti mesi fa, sperava che il grande Concilio pan-ortodosso di Creta servisse per lo meno a rivedere ruvidezze reciproche tra le Chiese ortodosse. Non poteva sapere che poi proprio la Chiesa georgiana è stata tra le più critiche nei confronti di Bartolomeo e del Concilio, al quale non ha partecipato.

Ma il Papa non se ne è preoccupato più di tanto, perché l’ecumenismo dell’abbraccio e le affettuosità che abbiamo visto a Tbilisi tra Francesco e l’anziano patriarca Elia sono state una grande lezione, anche per chi, tra gli ortodossi, ha voluto mantenere il punto e non inviare una delegazione «ufficiale» per assistere alla Messa celebrata dal Papa. La teoria dunque su un presunto «schiaffo di Tbilisi» non regge, perché i due l’hanno preventivamente allontanata con il loro affetto a favore di telecamere.

È stato insomma lo Spirito di Assisi, cioè diventare amici e mostrarlo al mondo come scelta strategica, che ha guidato la missione in Caucaso. Aver ribadito a Baku insieme ai musulmani che concezioni e atteggiamenti che strumentalizzano le proprie convinzioni e le proprie identità, perfino in nome di Dio, sono sbagliate perché così si legittimano intenti di sopraffazione e di dominio, non è solo una frase cruciale che va sempre ripetuta nei rapporti interreligiosi, ma serve a delineare un percorso che sul fronte del Caucaso può fare la differenza, così come nei turbolenti spazi del vicino Medioriente. E questo è il risvolto geopolitico delle missioni di Bergoglio.

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