Pensioni «d’oro»
Il lavoro e le rendite

Sulle pensioni d’oro ormai si è detto tutto e il contrario di tutto. Come è noto il governo sta valutando se ridurre del 20% le pensioni sopra i 4 mila euro netti mensili. Ma la questione non è così semplice, perché il ministro del Lavoro Di Maio e lo stesso premier Conte procedono a strappi, senza una decisione precisa. La proposta viene modificata quasi ogni giorno anche a seconda delle reazioni politiche e sociali e l’ipotesi dei tagli cade un giorno sì e uno no. Il testo da presentare in Parlamento dovrebbe essere una proposta di legge Lega-Cinque Stelle, che però non è proprio quella indicata da Di Maio. La proposta si basa su una riduzione delle quote retributive dell’assegno, a seconda dell’età di pensionamento, un intervento che colpirebbe in modo più pesante coloro che si sono ritirati in anticipo, sfruttando in passato i requisiti di pensionamento più favorevoli. Il governo, ha annunciato il ministro del Lavoro, conta di risparmiare tra i 500 e i 600 milioni di euro da destinare a un fondo per le pensioni minime. Non si tratta certo di una rivoluzione pensionistica. Con i soldi racimolati si potrebbero distribuire 50 euro annui procapite all’anno alle pensioni sociali con meno di 780 euro. Ne vale la pena?

Ma sulla proposta pesa come un macigno l’incostituzionalità del provvedimento, dato che avrebbe un valore retroattivo. Non a caso la Lega sostiene che forse sarebbe più giusto un contributo di solidarietà «una tantum» (un sentiero già sperimentato dal governo Letta con la manovra del 2014 giudicato legittimo dalla Consulta), piuttosto che un ricalcolo permanente dell’assegno con il sistema contributivo. Quello della costituzionalità non è l’unico ostacolo. Se si applicassero i criteri contributivi alle pensioni non è detto, come ha avvertito l’Inps, che si riesca a ricostruire le carriere lavorative dei pensionati che hanno percepito la pensione per decenni col calcolo retributivo, vale a dire non basato sui contributi versati.

C’è poi il problema di come definire «d’oro» una pensione. Si è partiti da 10 mila euro netti, poi si è arrivati a 5 mila e si è passati a 4 mila euro netti. L’ultima proposta parla di 80 mila euro lordi (3.780 euro netti per 13 mensilità con le addizionali comunali e regionali). Tutti riccastri?

Inoltre si parla del principio di fondo giacobino che sta alla base del provvedimento. I pensionati che prendono 4 mila euro al mese netti non sono ladri ma professori universitari, magistrati, alti funzionari e via dicendo, che hanno ricevuto la pensione in base a stipendi relativi a carriere prestigiose. In Italia i «ricchi» non sono coloro che percepiscono un reddito da lavoro (e quindi una pensione derivante da questo lavoro) ma quelli che Keynes chiamava i «rentier», coloro che vivono di rendita e che magari evadono le tasse, le eludono o hanno residenza all’estero. E le rendite non sono né salari né profitti, e dunque nemmeno pensioni.

Non è il lavoro a creare i «ricchi», ma le rendite. Ecco perché per il contributo di solidarietà per alzare le pensioni minime, operazione sacrosanta, il governo dovrebbe cercare altrove e non applicare il solito «teorema del lampione» per racimolare mezzo miliardo di euro (poca cosa, come abbiamo visto per alzare il tenore di vita di milioni di persone che prendono meno di 780 euro al mese). Il «teorema del lampione», come è noto, consiste nel cercare i soldi dove sono visibili e da cui si può attingere facilmente e velocemente, vale a dire tra i lavoratori dipendenti e i pensionati. Lo fece anche il governo Monti nel 2012. Anzi, a ben vedere, lo fanno tutti i governi della Repubblica.

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