Polizia sotto accusa
La violenza, il rispetto

Il comportamento della polizia al G8 di Genova del luglio 2001 è un marchio indelebile della storia della Repubblica italiana. Per capire ciò che avvenne un buon punto di partenza è il film «Diaz» di Daniele Vicari, che ricostruisce sulla base degli atti giudiziari e delle testimonianze le violenze e le torture fisiche e psicologiche avvenute all’interno della caserma di Bolzaneto ai danni di persone innocenti, giovani e meno giovani, che avevano avuto l’unico torto di dormire in una scuola e scambiati a torto per i «black bloc», ovvero di quei giovani violenti (in gran parte provenienti dall’estero) che avevano messo a ferro e fuoco la città durante la manifestazione dei no global.

Persone innocenti su cui si rovesciò la furia cieca di un reparto della Celere sotto la guida di rappresentanti e dirigenti delle forze dell’ordine. I quali gradivano che venisse dato un «esempio» per la violenza subita da carabinieri e polizia nei giorni precedenti.

Ma il G8 di Genova è solo un episodio nefasto delle forze dell’ordine, su cui ha indagato la magistratura, che ha avuto regolari processi e che ha sortito verdetti, condanne e risarcimenti, non solo da parte della giustizia italiana, ma anche di quella europea. Il 26 ottobre 2017, la Corte di Strasburgo ha condannato l’Italia a risarcire gran parte delle vittime, in gran parte straniere, a seconda delle lesioni subite.

È assolutamente ingeneroso e ingiusto identificare i fatti di Genova con tutto il sistema dell’ordine pubblico, colpevole, a detta del magistrato, di aver fatto fare carriera ai responsabili dei fatti avvenuti nella caserma Diaz, come ha fatto il sostituto procuratore generale di Genova Enrico Zucca, tirando addirittura in ballo il caso del povero Giulio Regeni, il giovane ricercatore friulano rapito, orribilmente torturato e ucciso da apparati di sicurezza egiziani.

«I nostri torturatori sono ai vertici della polizia», aveva detto Zucca, «come possiamo chiedere all’Egitto di consegnarci i loro torturatori?». Come se fossero paragonabili uno Stato di polizia, un regime autoritario come quello egiziano, privo di alcune delle più elementari libertà personali, dove solo facendo una fotografia sbagliata a una caserma o a un obiettivo sensibile si finisce in galera, con l’apparato democratico italiano, garantito da 70 anni di Repubblica fondata sulla Resistenza e difeso dalle nostre forze dell’ordine.

Ieri il procuratore generale della Cassazione ha avviato accertamenti sulle dichiarazioni del dottor Zucca. Ma al di là dei provvedimenti, è giusto dire che si è trattato di un paragone inappropriato e ingeneroso, non fosse altro per il sangue versato dai servitori dello Stato morti per difendere la nostra democrazia. Citeremo per tutti gli agenti e i carabinieri della scorta di Aldo Moro, visto che si è appena celebrato l’anniversario della strage di via Fani.

Il capo della polizia Franco Gabrielli li ha definiti «arditi parallelismi» e ha chiesto rispetto. Si coglie anche un certo imbarazzo nelle parole del vicepresidente del Csm Giovanni Legnini («quella del pubblico ministero di Genova Zucca è stata una dichiarazione impegnativa con qualche parola inappropriata»).

E probabilmente questi paragoni non serviranno a rendere più celere il percorso che dovrebbe farci arrivare a ottenere faticosamente verità e giustizia per Giulio Regeni, orribilmente torturato e ucciso mentre svolgeva una ricerca al Cairo sul sindacato degli ambulanti, come chiedono da sempre i suoi genitori. Quando si fa polemica, bisognerebbe sempre mantenere il senso delle cose, altrimenti i paragoni inappropriati, rischiano di creare polveroni senza risolvere nulla.

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