Popolari spa, scelta
che crea incertezza

Martedì 20 gennaio il Consiglio dei ministri emanerà un decreto legge con cui abolisce il principio del voto capitario, ossia del voto unico per ogni azionista quale che sia il numero di azioni possedute, con riferimento alle banche popolari. Le quali, fino ad oggi, sono costituite in forma di società cooperativa, società che nel nostro ordinamento prevede appunto il voto capitario. Il decreto legge è un modo molto intelligente, o furbesco, nel caso di specie. Il governo, infatti, non potrebbe disporre diversamente.

Se proponesse per legge che le popolari debbono trasformarsi in società per azioni, a prescindere dalla inopportunità e probabile incostituzionalità della norma, dovrebbe concedere ai soci il diritto di recesso, e quindi porrebbe a rischio patrimoniale una parte del sistema bancario. Abolendo la norma del voto capitario, invece, il governo ottiene due risultati: trasforma di fatto le popolari in società per azioni e impedisce il recesso ai soci, che possono anche continuare a qualificare la propria società come cooperativa, però di diritto speciale.

Vi è un altro punto da chiarire. Cadrà anche il principio per cui nessun socio può avere più di una piccolissima percentuale del capitale sociale. La società, senza più il voto capitario, dovrà organizzare una nuova governance. Con nessun socio che possa possedere più dell’uno per cento del capitale sociale, per esempio, il capitale di comando di una società di fatto per azioni avrebbe la stessa probabilità di essere stabile quanto quella di estrazione di un terno al lotto. Muteranno, per forza di cose, gli assetti proprietari, con probabili turbolenze di mercato.

È opportuna la trasformazione di fatto delle popolari in società per azioni? Con un orizzonte di breve termine, l’effetto principale è che la società diviene contendibile, mentre non lo era con il voto capitario. In termini più semplici: le quotazioni delle azioni delle banche popolari, con voto capitario, potevano raffrontarsi con i corsi delle azioni di risparmio, rispetto alle azioni ognuna con un voto che sono invece qualificate come ordinarie. In via immediata i corsi di borsa possono crescere in significativa proporzione. Sempre però che trovi soluzione il problema della governance nel caso il decreto sia poi tradotto in legge dal Parlamento. Il mercato potrebbe vivere sessanta giorni nella assoluta incertezza.

Il decreto legge potrebbe essere impugnato davanti alla Corte costituzionale? Ho molti dubbi al proposito, anche se l’Italia è, in ogni caso, un Paese con un numero molto alto di avvocati! Bisogna quindi essere pronti, nei sessanta giorni per la conversione in legge del provvedimento, a prospettare nuove forme di governo societario. Se proprio sarà inevitabile passare alla forma di società per azioni (credo che il governo giustificherà la nuova norma in quanto nelle banche popolari, che hanno migliaia di soci e una articolazione territoriale alquanto ampia, non può più sussistere il principio originario della cooperazione) suggerirei, però, di porre in statuto due clausole: il possesso massimo di azioni con diritto di voto –nell’intervallo tra il 2,5 e il 5% del capitale sociale– e la possibilità di mutare tale norma solo con delibera di assemblea straordinaria votata dalla maggioranza assoluta del capitale sociale in circolazione. Una mia antica proposta di vent’anni fa.

Passando all’aspetto più emotivo della questione, debbo dire che nella solitudine della mia vecchiezza vedo cadere una parte del mio mondo, vedo distrutti valori in cui ho sempre creduto. E soprattutto non vedo il provvedimento come del tutto necessario. Anche se potrebbe essere utile per singoli casi specifici. Ma le malinconie di un vecchio contano poco o nulla.

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