Prendere le distanze
non è più sufficiente

Quali meccanismi psicologici e culturali spingono i giovani immigrati di seconda e terza generazione verso lo jihadismo? Due le risposte finora in campo: radicalizzazione dell’Islam oppure islamizzazione dei radicali. Quanto alla radicalizzazione dell’Islam: non c’è dubbio che l’Islam si presti a interpretazioni pacifiste o violente. È accaduto anche al Cristianesimo, che ha avuto nei secoli varie teologie della liberazione, da Fra’ Dolcino, ai Taboriti, agli Anabattisti, a don Camilo Torres.

Perciò, quando i rappresentanti delle comunità islamiche affermano, parlando della Jihad, che «non è questo il vero Islam» hanno solo una parte di ragione. Dipende da quali «sure» del Corano si leggano e in quale ambiente socio-politico si interpretino. Nel Corano, ma anche nel Vecchio Testamento sono presenti istanze sterministe. Nel Deuteronomio (20, 16-18) è scritto: «Soltanto nelle città di questi popoli che il Signore tuo Dio ti dà in eredità, non lascerai in vita alcun essere che respiri; ma li voterai allo sterminio». Il Nuovo Testamento ha rovesciato quelle posizioni. L’Islam storico non lo ha fatto. Una dinamica analoga ha interessato il movimento comunista.

Il Pci nei primi anni ’70 qualificò come «fascisti rossi» le Br. Dunque, estranei. Solo più tardi riconoscerà «un’aria di famiglia» in quelle posizioni e solo dopo l’assassinio di Moro si passerà alla lotta contro i «compagni assassini». Erano comunisti? Sì, ma una versione diversa del comunismo del Pci. Quanto all’islamizzazione dei radicali: vi sono strati giovanili spesso istruiti, ma poco integrati o, al contrario, integrati, ma insoddisfatti del mondo come è, pieno di ingiustizie. Il vocabolario islamico dà loro le categorie intellettuali per autocollocarsi nel mondo. Non è un fenomeno nuovo. Accadde lo stesso nel nostro ’68. Una generazione scontenta, figlia del miracolo economico, trovò nel marxismo degli anni ’30 della Terza internazionale o in quello utopico radicale, assai diversi da quello di Gramsci e Togliatti e da quello sovietico, le parole per capire il mondo contemporaneo. Il partito armato è nato da là. Oggi l’Islam sunnita-wahabita (su cui si fonda il regime saudita) è diventato, per il radicalismo giovanile islamico, la nuova teologia islamica della liberazione stragista.

Come è possibile che l’Islam radicale riesca a dare la parola alle istanze giovanili di liberazione umana? Come è stato possibile che il marxismo, nato come teoria della liberazione, si sia trasformato anche in azioni di terrorismo? Ambedue le risposte esplicative formulate all’inizio convergono su un punto di verità: tanto la radicalizzazione dell’Islam quanto l’islamizzazione del radicalismo sono possibili, perché la cultura religiosa islamica incorpora quella possibilità radicale. Così come il marxismo. Tutte le ideologie totalitarie della liberazione umana mescolano nichilismo, volontà di potenza, tensione ad un Assoluto senza incarnazione, che non si rassegna alla finitezza e alla fragilità dell’avventura umana. È la liberazione come apocalissi. Se le cose stanno così, non basterà per gli islamici moderati prendere le distanze. Devono mettere in questione la teologia e l’antropologia. Nulla di meno. I cristiani lo hanno fatto. Il comunismo è stato sepolto sotto le proprie macerie. Quanto a noi, possiamo testimoniare che migliorare il mondo è possibile, solo se usciamo dalla campana di vetro del nostro egoismo sazio e indifferente. I giovani hanno bisogno di adulti-testimoni. Serve l’intelligence. Ma per farla funzionare, occorre esercitare una profonda intelligenza culturale e politica. Intus legere, «guardare dentro le cose», senza volgere lo sguardo dall’altra parte.

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