Primarie addio
Decidono i capi

Non bisogna cedere alla tentazione del qualunquismo e certamente rimangono delle differenze osservabili, e tuttavia il quadro che si prospetta in vista delle prossime elezioni nazionali è davvero sconfortante, con riferimento almeno – a questo ci atterremo – alle modalità con cui i partiti in campo hanno selezionato le candidature. Non si tratta di un giudizio sulle persone dei candidati – che ciascuno si farà e che comunque è inevitabilmente variabile da caso a caso – ma di una valutazione severa sulle modalità dell’avvenuta selezione che dimostrano, ancora una volta, quanto i partiti siano distanti da una reale volontà di apertura alla partecipazione dei cittadini e di adeguamento a un criterio democratico di organizzazione e di funzionamento.

Insomma, l’imperativo delle democraticità dei partiti, ricavabile dall’art. 49 della Costituzione, è ben lontano dall’essere raggiunto e la vicenda candidature attesta quanto anche le recenti riforme, pur assai sbandierate, abbiano inciso tutt’al più sui requisiti di trasparenza (la necessità, ad esempio, di uno statuto, adottato con un particolare atto giuridico), ma non su quelli di partecipazione, soprattutto nel passaggio cruciale della definizione delle candidature.

Eppure questo è il momento in cui si dovrebbe essere più esigenti – non meno! - verso i partiti, perché nella selezione delle candidature essi svolgono una funzione di tipo pubblicistico, che incide cioè sulla formazione di un organo di rappresentanza politica nazionale, con ricadute pertanto sulla generalità dei cittadini (e non sui soli associati). Anche i partiti che si erano segnalati in positivo per la sperimentazione di modalità di investitura mediante primarie aperte (il Pd, essenzialmente) hanno ripiegato ora, un po’ alla chetichella, nelle più viete e grigie procedure verticistiche. Essi si affidano all’arbitrio della cooptazione da parte di leadership francamente appannate, quando non decisamente usurate, quasi fossero asserragliati in un fortino del potere, sordi alle pressanti, ancorché confuse, richieste di rinnovamento e di ricambio da parte dell’opinione pubblica.

E così rieccoci allo spettacolo scarsamente edificante di candidature decise a dispetto del territorio, paracadutate e imposte dall’alto. Oppure a quello, ulteriormente mortificante, di candidature plurime, perseguite non tanto – si badi bene – per la capacità attrattiva dei leader, ma per garantire a questi ultimi maggiori probabilità di elezione, nonostante gli elettori...Una sorta cioè di accanimento, si direbbe, che rivela un’ansia di potere, che è la prevedibile conseguenza del vizio antico e ciò nondimeno perdurante del professionismo della politica. Si può naturalmente condividere che le primarie, laddove siano state sperimentate in forma aperta, abbiano rivelato dei problemi e dei rischi di inquinamento strumentale del voto. E tuttavia la risposta sarebbe dovuta essere almeno il deciso e sostanziale coinvolgimento degli iscritti – anche per premiarne la fedeltà, in tempi di grave e non ingiustificata disaffezione - e non il ritorno a procedure opache e verticistiche. A questi difetti di chiusura dei partiti si assommano i limiti intrinseci di una legge elettorale che utilizza i collegi uninominali - quelli in cui il profilo del candidato potrebbe emergere e contare maggiormente - solo per poco più di 1/3 dei seggi e, per il resto, ripropone liste, pur brevi, bloccate e candidature plurime. Non basta sparare contro il populismo, che resta una risposta insufficiente e pericolosa: servirebbe almeno smetterla di alimentarlo con condotte indifendibili che tirano la corda della pazienza di cittadini già molto provati.

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