Processi infiniti
e garanzie a rischio

L’Italia non è un Paese per le sfumature. Dobbiamo sempre passare da un eccesso all’altro, come ai tempi dei bianchi e dei neri e dei capuleti e montecchi, senza mai considerare le giuste misure. In questo caso, in sede di processi, dall’iper-garantismo all’iper-giustizialismo. Con un emendamento al disegno di legge anticorruzione attualmente all’esame delle commissioni Giustizia, il Guardasigilli in quota ai 5 Stelle Alfonso Bonafede ha infatti proposto una radicale riforma della disciplina della prescrizione, prevedendone sostanzialmente l’abolizione dopo la sentenza di primo grado.

Dopo averla allungata, stiracchiata, articolata per un ventennio, in un forte odore di conflitto d’interessi e di leggi «ad personam» pro Berlusconi (e i governi di centrosinistra hanno sostanzialmente mantenute le cose come le avevano lasciate quelli di centrodestra), ecco che il nuovo esecutivo giallo-verde ne propone la totale «rivoluzionaria» cancellazione, rischiando di trasformare i tribunali italiani in macchine di processi infiniti, per non parlare di un sacrosanto garantismo in favore dell’imputato che va a farsi benedire. I processi non possono durare una vita.

È giusto convivere con una vicenda giudiziaria cinque, dieci, vent’anni, potenzialmente anche tutta la propria esistenza, se col tempo i processi si affastelleranno? Quale sarà il prossimo passo? Trasferirli di padre in figlio, dopo la morte del reo, come avveniva nella Grecia classica? La ragionevole durata del processo è un caposaldo dell’ordinamento giuridico, non può essere abolito con un emendamento.

Eppure è quello che potrebbe accadere dal 2020, quando la riforma dell’istituto giuridico che cancella il reato per effetto del tempo trascorso dovrebbe andare a regime. Tutte le norme hanno una ragione specifica, una «ratio», come dicono i giuristi. In questo caso è che, a distanza di tempo, viene meno sia l’interesse dello Stato a punire il reo sia il suo reinserimento nella società attraverso il carcere. La si poteva accorciare la prescrizione, oppure articolarla a seconda della gravità dei reati. non eliminarla con un tratto di penna.

Ma esistono anche altre ragioni per opporsi all’abolizione di questo istituto dopo il primo grado di giudizio, abolizione cui si oppongono gli avvocati, scesi in sciopero per quattro giorni.

Se non c’è più un limite temporale alla durata di un processo si rischia di caricare di lavoro le corti d’Appello, con ricadute ancora più negative sui tempi già biblici della giustizia italiana. Alla corte d’Appello di Roma ad esempio il 40% dei processi finisce in prescrizione perché il tribunale non ce la fa a smaltirli tutti. Dunque dal 2020, se passasse l’emendamento proposto dal ministro della Giustizia, i giudici, gli avvocati e il personale addetto, dai cancellieri al personale amministrativo, sarebbero obbligati a smaltire il 40% di lavoro in più. Forse sarebbe meglio riformare la fase preliminare del processo, quella inquirente, che costituisce la causa della prescrizione per il 60% dei casi. Senza per questo depotenziare le indagini, bensì dotando gli apparati investigativi e di polizia giudiziaria di più mezzi e di più personale. Ma di questo non se ne parla. Meglio un bel colpo di spugna sui limiti temporali dell’iter processuale, magari appellandoci al fatto che in qualche Paese estero, come la Germania, sono già stati aboliti, dimenticandoci che siamo la patria del diritto fin dai tempi della fondazione di Roma e che dovrebbero essere gli altri Paesi, tedeschi compresi, a prendere esempio da noi e non il contrario. La macchina della giustizia italiana, soprattutto quella civile, è universalmente riconosciuta come troppo lenta e una giustizia lenta, come diceva Montesquieu, è una giustizia negata. Una riforma che abolisce dopo il primo grado la prescrizione rischia di negarla ancora di più.

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