Produttività e salari
Parola ai sindacati

Nel Compendio di indicatori 2016 della produttività, diffuso dall’Ocse, si evince che a partire dal 2000 le economie dei Paesi più industrializzati, a eccezione degli Usa, hanno segnato un rallentamento del trend di crescita della produttività. In questo vasto scenario della produttività che rallenta, l’Italia soffre più degli altri. Secondo l’Istat, dal 2000 ad oggi la produttività in Italia è progredita solo dell’1%, mentre la media dei nostri concorrenti europei raggiunge il 16%. Nel manifatturiero, nostra punta di diamante, la crescita è stata del 17%, contro il 35% in Germania, nostro principale Paese concorrente.

Di fronte a questi dati assai critici, il nuovo presidente di Confindustria Vincenzo Boccia, all’atto del suo insediamento, ha indicato una direzione concreta per rilanciare la crescita della produttività, a vantaggio di imprese e lavoratori. Richiamando gli accordi innovativi interconfederali del 2011 e 2013, ha evidenziato la necessità «di costruire una grande piattaforma di scambio tra salario e produttività per dare possibilità ad ogni singola azienda di costruire un modello contrattuale che permetta di recuperare produttività».

Successivamente, nel suo intervento al meeting autunnale dei giovani industriali, Boccia ha chiarito che i nuovi contratti potranno portare benefici economici alla sola condizione dell’aumento della produttività delle singole aziende. Da qui la richiesta esplicita ai sindacati di un «patto per la fabbrica», con l’occhio attento alla dinamica delle relazioni industriali coerenti con il «piano nazionale industria 4.0» annunciato da Matteo Renzi. Questo piano, che segue analoghe iniziative avviate negli Usa, in Francia e in Germania, si propone d’incentivare gli investimenti privati su tecnologie, di aumentare la spesa privata in ricerca, sviluppo e innovazione e di rafforzare la finanza a supporto di venture capital e start-up. In linea con questi obiettivi, nella legge di stabilità sono previste, tra l’altro, misure specifiche quali il rafforzamento della detassazione del contratto di produttività (1,3 miliardi tra il 2017 e il 2020) e il raddoppio del credito d’imposta per investimenti in R&S (dal 25% al 50%). Tali misure hanno incontrato il totale assenso del presidente Boccia, che degli incentivi al salario di produttività ne ha fatto un cavallo di battaglia. Secondo sue recenti dichiarazione, infatti, essi rappresentano «un punto di caduta che potrebbe vedere insieme Confindustria e il sindacato in un atteggiamento di corresponsabilità e rappresentano uno dei nodi di sviluppo su cui costruire una politica industriale». Ha, inoltre, aggiunto: «Confindustria non prende la produttività come alibi per diminuire i salari; al contrario l’obiettivo è farli crescere». Si tratta, come appare del tutto evidente, di un invito esplicito ai sindacati ad intraprendere una stagione davvero densa di accordi aziendali, col duplice obiettivo di stimolare la produttività delle imprese e accrescere il salario dei lavoratori. Ne sono seguite dichiarazioni da parte di responsabili di varie sigle sindacali che, con toni diversi, hanno manifestato una certa disponibilità al dialogo.

Piuttosto critica, però, appare ancora la Cgil, alcune delle cui componenti restano legate ad una vecchia concezione dei rapporti contrattuali tra imprenditori e lavoratori, che vede come fondamentale la contrapposizione di interessi, piuttosto che la ricerca di una collaborazione, in vista del raggiungimento di un interesse comune rappresentato dallo sviluppo dell’impresa. Ciò è emerso, in particolare, da una dichiarazione di Susanna Camusso per la quale «è necessario che anche il salario nazionale venga detassato perché nel Paese ci sono troppe disuguaglianze che bisogna ridurre invece di farle aumentare». Se questa posizione prevalesse, si farebbero inspiegabili passi indietro anche rispetto ai patti inter confederali di questi ultimi anni. Ciò che sarebbe più grave, però, è che il sindacato rinuncerebbe a riprendere nelle proprie mani la soggettività sociale dei momenti migliori, rinunciando a candidarsi per il futuro quale interlocutore in grado di rappresentare un punto fermo e imprescindibile per la salute dell’economia e della coesione sociale.

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