Profonda crisi: il voto
come unica via d’uscita

È molto probabile che si vada a votare in luglio. Sarebbe la prima volta nella storia della Repubblica. Ma soprattutto sarebbe la prima volta che una legislatura si interrompe senza neanche essersi avviata perché i partiti non riescono ad accordarsi per formare una maggioranza e votare un governo. Un’ulteriore prova dello stato di profonda crisi istituzionale e politica che si trascina da anni e di cui fu già prova l’incapacità dello scorso Parlamento di eleggere un nuovo presidente della Repubblica scongiurando l’uscente di rimanere in carica: anche in quel caso era la prima volta che accadeva.

È molto probabile che andremo a votare in piena estate (con il rischio di un altissimo astensionismo) perché la maggioranza dei partiti non voterà il «governo neutrale» che Mattarella si appresta a formare per far decantare la situazione per un numero limitato di mesi, quelli sufficienti ad affrontare le emergenze più vicine come l’aumento automatico dell’Iva, gli impegni del Consiglio europeo, la legge di stabilità. Ma appunto questo governo «di servizio» già si sa che non verrà votato né dal Movimento 5 Stelle né dalla Lega né da Fratelli d’Italia. I tre partiti vogliono solo le elezioni al più presto, si sentono già in campagna elettorale e considerano le prossime elezioni come un «ballottaggio» tra loro. Mattarella li ha implicitamente sfidati dicendo: se non voterete il governo neutrale e provocherete di necessità le immediate elezioni prima che sia stato possibile fare le cose necessarie vi assumerete la responsabilità di fronte al Paese dei rischi connessi, non ultima una tempesta finanziaria che potrebbe aggredirci vanificando una ripresa che di suo mostra segnali di rallentamento. Ma Di Maio e Salvini non hanno raccolto l’ammonimento del Capo dello Stato e hanno deciso di accettarne la sfida, sicuri che la prova d’appello li premierà.

Naturalmente è possibile che qualcosa accada tra oggi - quando ci aspettiamo che il Quirinale convochi la personalità che si dovrà caricare di questo onore non invidiabile - e il momento in cui le Camere dovranno votare la fiducia al successore di Gentiloni. Per esempio ci si chiede quale sarà l’atteggiamento di Berlusconi il cui interesse non è certo quello di precipitarsi alle urne col rischio di vedere Forza Italia risucchiata dall’ondata leghista, tant’è che il Cavaliere ha da tempo fatto capire che avrebbe preferito un governo istituzionale utile a prendere tempo e a far maturare le cose senza lasciare l’Italia in balia dell’ordinaria amministrazione. Potrebbe votare a favore del «governo del presidente» differenziandosi da Salvini? Il dubbio deve averlo anche il leader leghista se ieri sera si augurava in un comunicato che il suo alleato mantenesse un atteggiamento coerente.

Più chiara è la linea del Pd che ha detto subito sì all’iniziativa di Mattarella: ma i voti dei suoi deputati e dei senatori non basterebbero neanche se si unissero a quelli di Forza Italia. I democratici temono di diventare la vittima sacrificale di un voto che li coglierebbe nel pieno di una crisi politica interna cui probabilmente solo la credibilità di Paolo Gentiloni potrebbe in qualche modo fare da scudo. Il Pd potrebbe pagare un prezzo ancora più alto di quello del 4 marzo e lo sa benissimo chi, come il Movimento 5 Stelle, punta a sottrargli altri voti. La sorpresa naturalmente potrebbe essere una (improbabile) rivolta dei deputati peones appena arrivati a Roma e che non hanno alcun interesse a rimettere in gioco la carica appena conquistata. Ma è difficile che si verifichi un movimento di massa, forse qualche caso, comunque non sufficiente. Questo è dunque quel che accade nei cosiddetti Palazzi del potere, sempre più malandati, all’interno dei quali va in scena una preoccupante rappresentazione di impotenza collettiva.

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