Proibito fuggire
dal mondo che brucia

Non posso sapere con quali aspettative, in questi giorni, i nostri lettori leggono i giornali, vedono la televisione, cercano informazioni in internet. Non posso neppure sapere quale sia lo «stato d’animo» dominante dell’opinione pubblica in generale. Ma, certo, non sono periodi di grande allegria, tra crisi libica, guerra ucraina, guerra e fondamentalismo islamico in Siria, immigrazione in massa... Tutti eventi di tale peso che fanno passare in secondo piano molti altri focolai di violenza in Africa, in India, in Pakistan e altrove. In questa situazione la comunità cristiana ha celebrato, nei giorni scorsi, l’inizio di Quaresima.

La cerimonia delle ceneri, così dimessa e così strana, soprattutto per chi non crede e poi tutta la Quaresima con le sue liturgie, ripropongono un tema che potrebbe essere formulato così: che ci fa la fede cristiana in un mondo in ebollizione? Che cosa hanno da dire digiuno, penitenza e preghiera ai cannoni di Debaltsevo o ai coltellacci dell’Isis?

È nella logica delle cose che chi ha fede cerca di vivere nella fede anche le paure di questi giorni. A quel punto mi pare diventi inevitabile che, più il mondo si agita, e più i cristiani si aggrappano a ciò che dà loro stabilità e quindi, precisamente, alla loro fede, alla Parola di Dio, alla preghiera. Il carattere inospitale di questo mondo fa aumentare la loro richiesta di ospitalità in un «altro» mondo. In altre parole ancora: in periodi di emergenza i cristiani diventano, anche senza accorgersi, apocalittici. L’apocalittico, infatti, spera moltissimo nel Signore proprio perché dispera nel mondo: il mondo va male, gli uomini sono ingiusti e violenti, ma arriverà il Signore: lui sì che sarà capace di portare la giustizia, di difendere i poveri, perfino di vendicare le ingiustizie e i soprusi dei violenti. In un certo senso, la disperazione nel mondo è la materia prima con la quale il cristiano diventato apocalittico costruisce la sua speranza nel Signore. Se questo lo si capisce, si capisce anche, però, che questa situazione rischia di allontanare il credente dal mondo. Le cose vanno male, mi rifugio nel Signore, ma se mi rifugio nel Signore mi allontano dalle cose che vanno male.

Sull’altra parte della sponda stanno i non credenti. Non solo perché non credono ma anche perché vedono in maniera diversa i fatti inquietanti di questi giorni. Ragiono in termini del tutto schematici, naturalmente. Ma mi pare ovvio che, se uno non crede, non capisce a che cosa serva pregare quando si deve sparare o avviare azioni diplomatiche per risolvere problemi complicatissimi. Si ripropone la provocazione di un passaggio famoso della «Peste» di Camus. Discutere su Dio mentre la peste fa strage dà l’impressione di una perdita di tempo. «È meglio per Dio che non si creda in lui e che si lotti con tutte le nostre forze contro la morte, senza levare gli occhi verso il cielo dove lui tace». Insomma: l’emergenza fa aumentare la vicinanza di Dio per chi crede e fa aumentare la distanza per chi non crede.

Posta così, la questione sembra non avere vie d’uscita. Sembra. Perché, in realtà, se la fede significa soltanto fuggire lontano dal mondo che sta bruciando non è più la fede in un Dio che si fa uomo. Più ci si avvicina a un Dio siffatto e più lui ci rimanda all’uomo. Ora non tocca a me risolvere il groviglio della Libia o quello dell’Ucraina. Ma è certo che questi problemi diventati così tragici e così vicini nonostante la distanza, impongono ai credenti qualche ripensamento su come vanno le cose e come si vedono abitualmente. Uno soprattutto.

Di fronte a situazioni così pesantemente politiche, non si può continuare a disprezzare la politica. I cristiani, in particolare, dovrebbero ripensare come è banale usare la fede per essere semplicemente più arrabbiati di chi la fede non ce l’ha. Ecco: forse la crisi attuale dovrebbe spingere i credenti che hanno preso la cenere sul capo, che digiunano e che pregano, a condannare, certo, la politica ingiusta ma, anche e soprattutto, a chiederne una più giusta.

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