Protezione civile
Regole e rischi

Dopo il disastroso terremoto del 1908 che rase al suolo Messina e Reggio Calabria si decise di cannoneggiare entrambe le città per scongiurare pericoli di epidemie. Fermata quella sciagurata soluzione, le scelte adottate successivamente furono il primo tassello di un processo che avrebbe portato alla nascita di organismi nazionali di coordinamento in materia di soccorso pubblico. Le drammatiche vicende di questi mesi – i terremoti nelle Marche e in Abruzzo, la tremenda valanga che ha seppellito il resort (con un bilancio di vittime ancora non definitivo) hanno riportato alla ribalta un annoso problema: come coordinare l’azione di soccorso e, nel contempo, organizzare un sistema in grado di garantire adeguata capacità di prevenzione e snellezza operativa.

Al riguardo, è difficile sostenere che gli attuali meccanismi siano pienamente idonei a ottenere i risultati che sarebbe lecito attendersi. Naturalmente, ciò in nessun modo può essere ascritto alle persone che hanno responsabilità di comando (sia a livello centrale, sia operativamente nei luoghi di intervento) e meno che mai può addebitarsi a coloro che rischiano quotidianamente la loro vita per salvare quella degli altri.

Occorre capire cosa possa essere fatto per un migliore funzionamento dei sistemi di soccorso pubblico. Nei decenni scorsi si sono inanellate scelte del tutto inidonee, che hanno pregiudicato e rischiano di pregiudicare ancora la qualità dei servizi in caso di calamità. La recente dichiarazione del presidente del Consiglio sembra anch’essa affetta da questa miopia. Gentiloni ha preannunciato l’intenzione di dare maggiori poteri al capo della Protezione civile e al commissario per la ricostruzione delle zone terremotate. Ipotesi plausibile, ma soltanto se riferita alle emergenze in corso. Nell’emergenza – avrebbe detto monsieur de La Palice – si agisce con strumenti di emergenza. Ma, nel contempo, vanno studiate soluzioni di lungo periodo. È indispensabile distinguere due fasi, due ambiti di scelte politiche, due serie di strumenti operativi.

A cominciare dalla unicità della «linea di comando» nazionale. Alla metà degli anni ’80 l’istituzione dell’Alto commissario per la protezione civile presso la presidenza del Consiglio spezzò in due il sistema che, fino ad allora, aveva poggiato sulla direzione generale dei Vigili del fuoco del ministero dell’Interno e sulle prefetture. La soluzione si rivelò da subito poco lungimirante, poiché diede vita a una doppia linea di rapporti tra centro e periferia. Una scelta prodotto di una visione azzardata del rapporto tra indirizzo politico e azione delle amministrazioni pubbliche, basata sulla convinzione che fosse conveniente avere i vertici di alcuni settori chiave a diretto contatto con il capo del governo. Visione sbagliata e velleitaria. Sbagliata perché incoerente con la divisione funzionale dei compiti di governo. È evidente che, alla fine, l’azione di governo deve essere unitaria nella sua globalità, ma ciò non implica che tutte le funzioni vadano ricondotte al presidente del Consiglio o alle sue strutture di staff. Velleitaria perché non riconosce l’esigenza di valersi delle competenze dei singoli apparati. Si può e si deve pretendere che essi funzionino meglio, senza «riforme» affrettate e poco oculate. Si pensi alla soppressione del corpo delle Guardie forestali, forzatamente fatto confluire nell’Arma dei carabinieri con il solo risultato di sperperare competenze specifiche di un gruppo professionale che andava utilizzato meglio.

Le esperienze passate forniscono una lezione chiara: occorre ripristinare una sola linea di comando centrale, che faccia perno sulla rete delle Prefetture e sia in grado di garantire uno stretto collegamento operativo con i comuni e le altre amministrazioni territoriali.

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