Quando la legge
toglie la speranza

Dopo il caso del 2017 di Charlie Gard si ritorna a parlare del fine vita con la morte del piccolo Alfie Evans. Un nuovo caso che ha scosso profondamente la comunità internazionale riaprendo una riflessione su questo tema. Il caso discusso in questi mesi sui media ha visto i genitori di Alfie, Tom e Kate, battersi in modo straordinario di fronte a una prognosi infausta legata a una rara malattia neurodegenerativa del figlio. La storia si è contraddistinta per una battaglia legale durata sei mesi e che ha visto le autorità britanniche, l’Alta corte,la Corte di appello, e la Corte suprema in una posizione di diniego nei confronti delle richieste dei due genitori di cure palliative.

A nulla è valso il ricorso all’autorità giudiziaria fino alla Corte europea dei diritti umani di Strasburgo. In questi mesi si è mobilitato anche il governo italiano attribuendo la cittadinanza ad Alfie, poiché l’ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma e il Gaslini di Genova si erano dichiarati disponibili ad accogliere le richieste dei genitori. Il Papa stesso si è pronunciato condividendo le istanze e la sofferenza di Tom e Kate. Nonostante ciò il 23 aprile i medici inglesi, dopo l’autorizzazione della magistratura, hanno proceduto a staccare il respiratore artificiale ad Alfie. Per 4 giorni il piccolo tuttavia ha continuato a vivere, fino alla notte tra il 27 e il 28 aprile quando alle 2,30 è deceduto.

La prima riflessione, quella forse più immediata, riguarda l’atteggiamento di questi genitori e della loro volontà di guardare oltre la malattia, la patologia, in altre parole oltre la morte, dimostrando di aver corrisposto pienamente al senso di responsabilità che chi mette al mondo dei figli è chiamato ad avere. La definirei la naturale attitudine di ogni padre e di ogni madre del «prendersi cura di». Forse è questo che chiedevano Tom e Kate, di non essere improvvisamente delle figure poste sullo sfondo di una vicenda che prima di tutto riguarda loro, le loro relazioni significative e di poter svolgere le loro funzioni genitoriali senza strappi, ma attraverso un diverso rapporto con le scienze mediche che più che indicazioni prescrittive dessero indicazioni supportive.

La seconda riflessione è legata più direttamente alla questione del fine vita, che richiama quello di qualità della vita. Quando infatti i medici hanno in cura un minore con gravi patologie, nel decidere se proseguire o meno le cure, lo fanno appellandosi al principio del migliore interesse e a una vita ritenuta dignitosa. A questo punto entrano in gioco i pluralismi legati a ciò che è dignitoso da ciò che non lo è. Già il professor Harvey Max Chochinov, con l’introduzione della terapia della dignità nell’ambito delle cure palliative, ha provato a offrire una alternativa efficace alle prospettive di eutanasia e accelerazione della morte, rimettendo al centro della questione non la malattia ma l’individuo.

Nel tema della qualità della vita forse dovrebbe trovare spazio naturale anche il tema dell’accompagnamento alla morte. Ciò non significa voler sconfinare nell’accanimento terapeutico ma pensare che la qualità della vita è anche qualità della relazione. La vita umana, infatti, va pensata oltre le sole dimensioni biologiche e il benessere andrebbe letto come condizione di vita complessa che può esprimersi in un’ottica multidimensionale che convoca la comunità intera, scienziati, clinici, famiglie e istituzioni. Il benessere può esprimersi pienamente anche nella scelta della cura personale e amorevole del soggetto malato.

Perché qualità della vita non dovrebbe rispondere a criteri come la capacità di presa in carico di una famiglia, attraverso la cultura dell’accompagnamento alla morte? Si è genitori dunque solo fino a un certo punto? Sembra che oggi se da una parte possiamo scegliere se dare o meno la vita in modo assoluto e incontrastato, dall’altra non possiamo scegliere di realizzare il progetto di vita genitoriale fino alla fine, come se lo Stato a un certo punto prevalesse sulla famiglia. Le risorse familiari invece non dovrebbero essere escluse in quel che è in realtà un processo di costruzione di qualità della vita e nel diritto di vie alternative a forme di eutanasia come quella del piccolo Alfie.

C’è da chiedersi cosa un giovane abbia compreso di questa vicenda, quale idea del senso della vita possa sviluppare di fronte a una cultura efficientista e fortemente orientata a un senso dell’individualismo, a un’idea di vita come sinonimo di prestanza fisica, dove non c’è spazio per le fragilità. Il concetto di qualità andrebbe riposizionato tra i membri che ne danno significatività e non precluso a loro, il rischio è che il termine diventi sinonimo di giudicare il valore della vita. Ma chi è e chi ha diritto sulla vita e sulla morte? La vita, nella sua sacralità, andrebbe forse ricondotta in un’accezione molto più ampia che tenga conto dei membri che concorrono a darne valore.

La sensazione che rimane è di una cieca, asettica e perché no brutale presa di posizione in nome della legge, che leva ogni possibile respiro al concetto di speranza.

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