Quel mondo fatto
e disfatto dai vecchietti

Che ci piaccia o non ci piaccia, il mondo è a una svolta. Per più di mezzo secolo ha prevalso tra le nazioni la tendenza a unirsi, ad abbassare le frontiere, a collaborare per la propria sicurezza, a spingere per quella che ultimamente veniva chiamata globalizzazione: sotto questo segno sono nati la Comunità (poi Unione) europea, con l’obiettivo di mettere fine ai conflitti che avevano dilaniato il continente e puntare addirittura alla creazione di un unico Stato federale; la Nato per difendere l’Occidente dal comunismo sovietico; il Mercosur, per abbattere le barriere tra i principali Paesi sudamericani; l’Asean, per mettere in comune gli interessi dei maggiori Paesi del Sudest asiatico.

Oggi tutte, o quasi, queste istituzioni sono in crisi: sono diventate impopolari e per molti nocive. Altre due che dovevano rivoluzionare i commerci, il Partenariato Transpacifico e quello Transatlantico, sono morte nella culla. La nuova parola d’ordine è nazionalismo, e porta nella direzione opposta. L’elezione a sorpresa a presidente degli Stati Uniti di Donald Trump, che aveva scritto su tutti i suoi berrettini propagandistici «Torniamo a fare l’America grande», è stato solo l’ultimo passo. Il suo slogan somiglia infatti in modo allarmante a quelli di Marine Le Pen («Torniamo a fare la Francia grande»), di Erdogan («Basta con l’Europa, fondiamo una nuova Turchia»), di Putin («La Russia deve riconquistare il posto che le spetta nel mondo»), di Xi («La Cina deve lavorare per una grande rinascita nazionale») e perfino di Theresa May («Se ti proclami cittadino del mondo, sei un cittadino di nulla»). Se poi andiamo a vedere i programmi di questi leader, dobbiamo concludere che siamo ai limiti dello sciovinismo, talvolta accompagnato da un pericoloso espansionismo: la Russia che occupa la Crimea e vuole fare rientrare nella propria orbita l’Ucraina orientale, la Turchia che sogna la rinascita del vecchio impero ottomano.

C’è chi obbietta che anche Reagan, nel 1980, aveva promesso di restituire all’America la sua grandezza; ma si era anche affrettato ad aggiungere che voleva un Paese rivolto verso l’esterno, attento agli alleati. Trump, al contrario, esibisce tendenze isolazioniste, che non sappiamo ancora in che misura verranno tradotte in fatti, ma che corrispondono alla volontà dell’America profonda cui ha dato voce. Si dice anche che, nella maggior parte dell’Europa, con l’eccezione di Polonia e Ungheria dove sono già al governo, i nazionalisti restano minoritari. Ma che cosa è stata la Brexit, se non una manifestazione di nazionalismo? Come classificare la costruzione di sempre nuovi muri per fermare l’afflusso di migranti da altri continenti? E che cosa accadrebbe se l’anno venturo Marine Le Pen, che vuole uscire sia dall’Euro sia dall’Unione, dovesse vincere le presidenziali? Una Frexit metterebbe la parola fine al sogno europeo, con un passo indietro di quasi un secolo.

Uno degli aspetti più singolari di questo revival nazionalista è che è promosso soprattutto dagli anziani, protagonisti della fase precedente ma evidentemente delusi dai suoi risultati, e assai meno dai più giovani, che si erano abituati a circolare liberamente tra un Paese e l’altro – spesso – a considerarsi davvero cittadini del mondo. Lo provano le analisi sia del referendum sulla Brexit, sia delle elezioni americane. La cosa sarebbe di buon auspicio, nel senso che potrebbe trasformare il ritorno di fiamma del nazionalismo in una fase di passaggio. Purtroppo, i giovani non sono uniti: tra loro c’è una profonda spaccatura tra coloro che hanno tratto vantaggi dal globalismo e dall’abbassamento delle frontiere, e coloro che ne sono stati danneggiati. Per sanare questa divisione, ci vorrebbe un ritorno allo sviluppo economico precedente la grande crisi, che al momento non è all’orizzonte.

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