Quella Chiesa testimone
nel Mezzogiorno

«Non si può credere in Dio ed essere mafiosi». E poi ancora più incisivo: «Chi è mafioso bestemmia». Le parole di Papa Francesco ieri a Palermo non hanno preso la forma dell’invettiva di Karol Wojtyla. Le ha pronunciate con voce bassa, ma inflessibile. Non ha nemmeno usato la parola «scomunica» perché per i mafiosi non occorre un provvedimento canonico esplicito o «latea sententiae». Le mafie, a qualunque latitudine del mondo operino, sono una configurazione assoluta del male, che le donne e gli uomini, che ne fanno parte, adorano con la loro condotta di vita. La spiegazione è molto semplice. Dio dà la vita, non la toglie. Mentre Cosa Nostra decide chi vive e chi muore. L’opposizione è netta. Non può esistere un mafioso devoto, perché, come avevano scritto i vescovi italiani nell’ultimo documento sul Mezzogiorno pubblicato otto anni fa, le mafie «sono una forma brutale e devastante di rifiuto di Dio».

Jorge Mario Bergoglio ha riassunto il magistero ormai consolidato di una Chiesa che nel corso del Novecento è diventata più robusta, frutto di vescovi pionieri che già all’inizio del secolo Novecento avevano avvertito la necessità di sganciarsi dalla sudditanza politica e clientelare e di preti martiri uccisi dal piombo di chi temeva, appunto, una Chiesa evangelicamente robusta, che formava onesti cittadini perché buoni cristiani.

La storia della Chiesa nel Mezzogiorno d’Italia è segnata dalla presenza di laici, preti e vescovi che mettono in campo idee e opere per alleviare le sofferenze della popolazione. Si chiamano Bartolo Longo a Pompei, Giacomo Cusmano a Palermo con il «Boccone del povero», Annibale Maria di Francia a Messina. Ci sono i preti ammazzati dalla mafia agraria perché si battevano contro l’usura e chiedevano l’esproprio delle terre in nome del Vangelo e non della giustizia proletaria. È questa la Chiesa dove è nato don Pino Puglisi, l’ultimo martire siciliano. Ieri Papa Francesco ha detto che è l’unica autorizzata dal Vangelo.È la Chiesa della testimonianza, che non sta chiusa nel ridotto di parrocchie profumate d’incenso, ma che esce per le strade e nei campi e lì ha potuto capire, prima di altri, il carattere anticristiano della mafia. Si potrebbe dire che il Papa non ha detto nulla di nuovo, ma ha solo ravvivato una memoria che tende all’oblio.

Eppure è questo ciò che accade. Chi ieri ascoltando le parole del Papa sulla Chiesa che non deve stare sopra il mondo, ma dentro, altrimenti prende la brutta deriva del clericalismo; o quella frase icastica e severa sulla spiritualità con gli occhi «lì per aria»; o quell’altra sull’unica pastorale che serve e cioè quella che si occupa di formare buoni cristiani e onesti cittadini; insomma chi si è ricordato di don Luigi Sturzo e delle sue battaglie dove i cattolici avevano il dovere, oltre che il diritto, di portare la loro parola e la loro protesta? Da Sturzo a Puglisi, da Caltagirone a Brancaccio, sono state la parola e la testimonianza di uomini di quella tempra a portare la Chiesa fuori, «in uscita», e dare credibilità al Vangelo. Per questo Bergoglio è tornato a dire ai giovani di sognare, foss’anche il sogno matto, ma ardimentoso di don Chisciotte, e ai preti di seguire l’esempio di don Pino che non viveva di «appelli anti-mafia» e non aspettava in chiesa che il mondo diventasse migliore. Per questo poi si è fermato a Capaci per pregare per Giovanni Falcone, sua moglie e la sua scorta uccisi dalla mafia e dai veleni di coloro che pavidi si nascondevano dietro il formale rispetto delle regole. Giovanni Falcone e Pino Puglisi: due uomini inermi, ma con un grande sorriso.

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