Quota 100, scorciatoia
senza futuro

Una delle ragioni che hanno portato all’introduzione della cosiddetta «Quota cento» è il tasso di sostituzione. I lavoratori vanno in pensione prima e lasciano posti liberi per i giovani. Una ricerca pubblicata dall’Osservatorio Conti pubblici italiani dell’Università Cattolica chiarisce che il numero di posti di lavoro varia anche in ragione dei mutamenti subentrati in sede produttiva. Non tutte le posizioni lasciate vengono automaticamente occupate perché nel frattempo i processi tecnologici fanno sì che il lavoro svolto da due possa essere compiuto da un solo addetto.

Questo è vero soprattutto per i grandi complessi industriali con un alto grado di sviluppo innovativo. Se rapportato all’export, in Italia le grandi imprese fatturano un terzo di quelle tedesche e sono sopravanzate anche dai campioni nazionali francesi. Le piccole imprese esportatrici (da 10 a 49 addetti) sono invece molte, più di 33 mila, ma non bastano perché il quadro prevalente è formato da micro imprese e dal popolo delle partite Iva a basso contenuto tecnologico. In questo contesto la sostituibilità tra giovani e anziani diventa nel breve termine plausibile. Insoluto rimane il fatto che i giovani dovranno farsi carico dei contributi necessari per finanziare le pensioni di quelli che hanno sostituito.

Un peso che grava sulle generazioni a venire. Ma di questo nell’immediato non si ha percezione. L’anziano è felice di smettere di lavorare e il giovane contento del nuovo posto di lavoro. Per la politica l’ideale. Questo spiega perché la Lega che ha il suo elettorato di base al Nord tenga tanto ad anticipare la data di uscita. Negli anni Settanta dello scorso secolo la Dc era arrivata a permettere pensionamenti con 19 anni sei mesi e un giorno di attività lavorativa, per dar posto nella pubblica amministrazione alle nuove leve del Sud, prive di possibilità occupazionali a casa loro. I conti pubblici ne risentono ancora. Nella lotta tra consenso e dissenso, feroce quello contro la riforma Fornero, quello che latita però è il senso. L’anziano non è da rottamare. Il suo è un bagaglio di esperienze e di buon senso che se abbinato all’innovazione produce risultati. In Bmw si registra un aumento della produttività del 7% da quando si è aperta una linea di produzione per lavoratori over 55. La cosa si spiega facilmente. Si risparmia tempo e denaro se a indirizzare le idee innovative dei giovani vi è un lavoratore di esperienza. Si evitano ritardi ed errori. E il tutto con un orario di lavoro ridotto e flessibile che tiene conto dell’anzianità di servizio.

L’Istat certifica in questi giorni che l’Italia è un Paese di vecchi ed è in chiara recessione demografica. Il 46% delle donne dai 19 ai 49 anni non ha ancora un figlio. Mandare tutti in pensione diventa un problema perché la platea di giovani non gliela fa a mantenere con i contributi un numero di anziani a lunga aspettativa di vita. L’Italia ha un record di longevità: 165 persone di età superiore ai 65 anni per ogni 100 ragazzi sino a 15 anni. Solo il Giappone fa meglio. Si vedano i dati Istat presentati dal presidente Gian Carlo Blangiardo. Aumentano i servizi sociali e la necessità di cure a domicilio. Tutte spese che però il servizio sanitario nazionale non copre e che quindi saranno, come già sono ora in parte, a carico delle famiglie. Balza quindi evidente che l’equazione più pensionamenti uguale più posti di lavoro è un’illusione ottica del breve periodo. La crescita non passa da queste scorciatoie. Conta invece aumentare la produttività. Ma per far questo occorre investire sui giovani, cioè su scuola e ricerca. Capire che il domani ha un suo prezzo nell’oggi è la nuova frontiera della politica italiana.

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