Razzismo strisciante
Italia in pericolo

Le circostanze della morte del giovane rifugiato nigeriano Emmanuel Chidi Namdi non sono ancora chiare e sarà compito della magistratura di Ascoli Piceno appurarle. Il contesto è quello che circonda qualunque rissa, foriera di una escalation che parte dagli insulti e degenera in atti di violenza che si trasformano in sangue, ferite, morte volontaria o preterintenzionale. Bisognerebbe sempre ricordare a chi provoca la famosa regola enunciata dal Manzoni nei Promessi Sposi: chi fa del male per primo fa del male due volte perché è responsabile anche della eventuale reazione della vittima.

Tutte le risse finiscono così e a chi legge i giornali pare che questo genere di episodi – al pari dei femminicidi – sia in continuo aumento. Ma, tornando alla morte di Emmanuel, quel che sappiamo è che tutto parte da un gravissimo episodio di intolleranza razziale. L’uomo accusato di omicidio, un ultrà colpito precedentemente da un Daspo, l’ostracismo decretato per chi esercita violenza negli stadi, e che ora si dichiara «distrutto dal dolore», come fa sapere il suo legale, aveva aggredito verbalmente la moglie di Chidi. Aveva urlato parlando di «scimmie africane», un epiteto di razzismo puro che ci riporta indietro di quasi cent’anni nella storia della civiltà di questo Paese.

Ed è proprio questo il punto: che Paese siamo diventati? Siamo diventati un posto dove se un giovane africano passeggia con la moglie sul lungomare di Fermo (città peraltro a detta di tutti ben integrata) diventa oggetto del dileggio razzista più osceno. È questa l’Italia in cui viviamo per effetto dell’impatto delle migrazioni?

Chi semina vento raccoglie tempesta: forse viviamo i frutti delle campagne d’odio di cui si è resa responsabile anche parte della nostra classe politica (anche se l’esempio dovrebbe venire dall’alto), per non parlare di certa stampa e degli angoli sporchi della società: a cominciare dagli stadi, dove si lanciano banane e scherniscono i giocatori di colore mimando i gesti e i versi delle scimmie.

Ora Chimyery è sola. La giovane sposa nigeriana non ha più nessuno: genitori, figlio, marito non c’è più nessuno accanto a lei, a parte l’amore fraterno della comunità che l’aveva accolta, quella di don Vinicio Albanesi, presidente della Fondazione Caritas in veritate e della comunità di Capodarco. Quando Papa Francesco ha lanciato l’appello ad aprire le porte delle chiese, dei monasteri, e delle strutture religiose per accogliere i profughi e i rifugiati «carne di Cristo», il seminario di Fermo è stato una delle prime strutture a rispondere. Ma era stato lo stesso coraggioso sacerdote marchigiano a parlare del clima insopportabile di provocazioni e intimidazioni che circondava la comunità ecclesiastica di Fermo, particolarmente impegnata nell’accoglienza, nel sostegno ai disabili, nell’assistenza ai tossicodipendenti: le bombe piazzate davanti alle chiese, le minacce agli assistenti sociali e ai sacerdoti.

Eppure, in questa cittadina evidentemente agiscono nell’ombra aree di illegalità e di delinquenza, come fa sapere il sacerdote, zone di spaccio e di prostituzione che prendono di mira chi nella Chiesa si adopera per gli ultimi. Probabilmente non piace a tutti l’azione instancabile di quei volontari e sacerdoti, di quelle suore che dedicano la loro missione, mattina e sera, all’accoglienza, arrivando a sedare con la sola forza della loro autorevolezza risse tra migranti e gente del posto, come era avvenuto in passato da quelle parti.

La storia di Emmanuel e Chimyery ha commosso gran parte dell’Italia. I due giovani erano scappati dalla Nigeria e dal terrorismo sanguinario e bestiale di Boko Haram, il gruppo che sta devastando quel lontano Paese da anni trasformandolo nel regno infernale del caos e dell’anarchia (e dove i cristiani stanno vivendo un martirio che ci riporta ai primi secoli). In un massacro perpetrato nel loro villaggio avevano perso tutti e quattro i loro genitori, erano sopravvissuti solo loro. Per fuggire all’orrore avevano attraversato il deserto fino alla Libia, subendo lo strazio di un viaggio del genere e i soprusi dei trafficanti di uomini. Durante la traversata Chimyery aveva perso il loro bambino. Poi l’approdo a Lampedusa, l’acccoglienza delle misericordie e della fondazione Caritas in veritate di don Vinicio, lo scorso novembre, con la speranza di un futuro migliore. Gli episodi della loro vita successivi parlano di una lenta risalita verso la dignità, con la domanda per lo status di rifugiati, il matrimonio informale, per mancanza di documenti, nella chiesa marchigiana di San Marco alle Paludi, la ricerca di un lavoro.

Ma i due giovani nigeriani sono scampati dalla furia di Boko Harm, non dal razzismo ormai per nulla strisciante del nostro Paese.

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