Renzi ha vinto
ma ci sono rischi

E così il grande strappo c’è stato. Matteo Renzi è andato diritto per la sua strada e ha imposto ai dissidenti e all’opposizione il voto di fiducia alla Camera sulla riforma elettorale. Ha avuto il suo risultato e in capo a pochissimo l’Italicum sarà legge. Di 120 deputati Pd dissidenti (bersaniani, civatiani, lettiani, bindiani, e via enumerando) solo in 38 sono arrivati fino in fondo e non hanno votato la fiducia. Tra loro personalità di spicco: un ex presidente del Consiglio come Enrico Letta, due ex segretari come Pier Luigi Bersani e Guglielmo Epifani, un ex capogruppo come Roberto Speranza, e poi Pippo Civati, Stefano Fassina, eccetera.

Trentotto su centoventi, o su ottanta come conteggiavano i più prudenti alla vigilia: di questi una cinquantina si sono sfilati all’ultimo momento sottoscrivendo un documento in cui era scritto: non siamo d’accordo ma votiamo lo stesso la fiducia. E così, quella che doveva essere una frana di deputati in libera uscita dalla disciplina di partito e di gruppo parlamentare, si è rivelata una limitata caduta massi. E in Transatlantico il commento più diffuso era: Renzi li ha asfaltati, Bersani, Bindi e Letta sono finiti, hanno dimostrato che non sono in grado di portarsi dietro tutti i loro e al dunque rimangono non proprio in quattro gatti ma quasi.

Non siamo persuasi che Renzi condivida giudizi tanto tranchant. Il premier ha vinto e i suoi oppositori hanno fatto vedere al mondo che hanno al seguito truppe fedeli piuttosto scarse. Ma la partita non è finita. Tanto per dire: ieri a tarda sera al Senato, dove Renzi ha margini molto più esigui, la riforma della Pubblica amministrazione è stata approvata con un solo voto di vantaggio, e non sarà stato un caso. A Palazzo Madama bisogna tornare ogni volta, a cominciare dalla riforma costituzionale: all’ultimo esame, quando gli anti-renziani si sfilarono, c’era ancora il soccorso azzurro di Denis Verdini e i suoi. Ma alla prossima occasione?

Siamo persuasi che Renzi si sia sentito costretto a mettere la fiducia, e che avrebbe preferito non arrivare ad una prova di forza che, per essere così estremizzata, con grande facilità si tramuta in una prova di debolezza. Se il presidente del Consiglio avesse saputo di poter contare sui gruppi parlamentari con un ragionevole margine di sicurezza anche col voto segreto, avrebbe corso il rischio. Al contrario sapeva di non potersi fidare e che una trappola era praticamente certa, e che lui sarebbe affogato nella palude, che la riforma sarebbe tornata al Senato e da lì non sarebbe più riemersa.

Aver messo la fiducia, essersi sentito paragonare al Mussolini delle leggi Acerbo o alla «legge truffa» del ’53 non sarà stato piacevole per Renzi. Ma quello che più conta è che presto ci saranno dei prezzi da pagare: il primo il voto sulla riforma Madia, altri ne seguiranno. Per questo motivo adesso da Palazzo Chigi devono partire le sirene della diplomazia, del dialogo, della riappacificazione, e già le prime dichiarazioni del vicesegretario Lorenzo Guerini dicono che c’è gente al lavoro su questo fronte. Ecco perché molti pensano che il prossimo capogruppo alla Camera, colui che dovrà prendere il posto di Roberto Speranza, dimissionario per protesta, sarà Cesare Damiano: uomo della sinistra, legato alla Cgil ma che ieri ha votato la fiducia e ai tempi del Jobs Act ha trovato i suoi compromessi con il ministro Poletti mentre Civati, Bindi e Fassina si strappavano i capelli insieme alla Fiom di Landini.

Altri scossoni di questo tipo non fanno bene al governo e rischiano di impedirne il lavoro riformatore, che pure va avanti su parecchi fronti, gli stessi su cui ci aspetta l’Europa e i mercati. Renzi ha bisogno di un governo che corra e una maggioranza docile. Sulla riforma elettorale l’ha dovuta domare con la bomba atomica, ma non è cosa che si possa fare ogni giorno.

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