Renzi promosso
ma perde i prof

La riforma della scuola proposta dal governo Renzi è ormai ad un passo dal diventare legge. Il voto di fiducia del Senato, il quarantesimo, ha scontato qualche dissenso ma ha confermato che in Parlamento, e a Palazzo Madama in particolare, Matteo Renzi gode ancora del sostegno della maggioranza parlamentare, e poco conta se ad essa concorrono anche i senatori a vita quale Giorgio Napolitano che liberamente ha votato a favore dell’esecutivo.

Del resto, le stesse diserzioni nel gruppo senatoriale del Pd si contano sulle dita di una mano quando è noto che la sinistra dem in quell’assemblea è rappresentata da un bel nutrito gruppetto di parlamentari. Di fronte ai numeri, anche le proteste molto scenografiche inventate dalle opposizioni, a cominciare dai grillini, poco hanno potuto. E anche le manifestazioni di piazza non sono riuscite ad esercitare il loro tradizionale potere di veto. Dunque, con 159 voti contro 112 si va avanti con la «buona scuola» che entro il sette luglio approderà a Montecitorio per un varo definitivo che consentirà l’assunzione di centomila insegnanti precari già nel prossimo anno scolastico e poi a seguire.

Per la valutazione politica di quanto è accaduto basti dire che il governo ancora una volta ha usato senza remore lo strumento della fiducia - ormai obiettivamente abusato, ma bisognerebbe anche chiedersene le ragioni - per battere l’ostruzionismo non dichiarato dei suoi avversari, materializzatosi in migliaia di emendamenti che mai avrebbero permesso di concludere in tempo l’approvazione della riforma, lasciandola a metà come tante opere pubbliche del nostro Paese dove abbondano le discussioni, le liti, le diatribe, le proteste rumorose, ma scarseggiano le decisioni. Giusta o sbagliata che sia, la riforma scolastica è una scelta prioritaria del governo che ha il diritto di farla approvare in Parlamento con gli strumenti legislativi che ha a disposizione. Invocare un ennesimo supplemento di dibattito da parte di chi ha presentato emendamenti al solo scopo di fermare tutto, era una pura mossa tattica, e come tale va giudicata. La sinistra, cioè la minoranza del Pd, Sel e la Cgil, puntava a portare a casa l’assunzione dei precari ( da sventolare in funzione anti-governativa) lasciando le cose come stanno – e stanno male, come tutti sanno. L’atto di forza della fiducia ha spezzato questo sogno.

Renzi incassa un nuovo risultato nel progetto riformistico del suo governo ma certo non potrà evitare di pagarne il prezzo in termini elettorali. Ormai tanti professori ostili alla riforma (o a qualunque riforma?) hanno detto addio al partito renziano, e i segni sono stati evidenti già alle recenti amministrative. È una perdita secca, soprattutto perché viene da un segmento sociale e professionale tradizionalmente legato al centrosinistra, che aveva osteggiato la riforma Gelmini, contestandone i tagli, e che ora appaia Renzi al centrodestra nonostante che il progetto che ieri ha ricevuto la fiducia del Senato preveda tante assunzioni e consistenti stanziamenti di nuovi fondi quando in passato si era soltanto proceduto a ridurre le risorse per la scuola pubblica. Ma così vanno le cose in democrazia e anche Renzi, che pure è un grande comunicatore, paga un prezzo al suo rapporto con l’elettorato.

Resta naturalmente del tutto aperto il giudizio di merito sulla riforma Renzi-Giannini. Esistono numerosi settori accademici, culturali, sociali e anche sindacali che non ne danno un giudizio tanto negativo come quello della signora Camusso e dei Cobas. Ma va pur detto che per far funzionare una riforma non basta che essa sia scritta sulle tavole della legge: deve invece vivere nella volontà e nella intelligenza di chi la deve applicare, e questo obiettivamente per ora non c’è. O almeno, non c’è in quanto vediamo agitarsi nelle piazze.

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