Riforme in Italia
come l’araba fenice

Dopo la netta bocciatura della riforma Costituzionale con il referendum del 4 dicembre 2016, anche per la «personalizzazione» fattane da Renzi, molti commentatori politici erano concordi nel ritenere che di riforme non si sarebbe parlato per molti anni. Quella di Renzi era una riforma parziale che rinviava ad un’idea di democrazia governante nella quale, grazie ad una legge elettorale maggioritaria, il governo scaturito dalle urne sarebbe stato messo in grado di svolgere pienamente il proprio ruolo senza eccessivi condizionamenti. Del tutto contraria è invece l’idea di democrazia che si è affermata dopo le elezioni del 2018, con la riproposizione del sistema proporzionale, nonostante fosse stato bocciato a larga maggioranza dal referendum del 1993.

Suo obiettivo è quello di realizzare un regime politico in cui, a meno di larghissime maggioranze, non ci siano né vincitori né vinti e nel quale gli accordi di governo si realizzino in Parlamento. Ciò è concretamente avvenuto dopo le elezioni, con la formazione di un governo sulla base di un accordo tra Lega e M5s, che è stato sancito con un «contratto di governo». Chi riteneva, però, fosse ormai chiuso il tema delle riforme costituzionali è stato smentito, perché tra i vari punti del contratto, nei quali vengono delineati i tratti generali delle politiche governative, all’art. 20 vi è anche la riproposizione di non poche riforme.

In una recente audizione alle commissioni Affari costituzionali di Camera e Senato, il ministro Fraccaro le ha puntualmente indicate come segue: una drastica riduzione del numero dei Parlamentari (200 senatori e 400 deputati); il divieto di ingresso al governo a chiunque abbia una condanna penale anche non definitiva per i reati stabiliti dalla legge Severino; il potenziamento del referendum abrogativo con la cancellazione del quorum; l’introduzione del referendum propositivo quale strumento di democrazia diretta; l’abolizione del Cnel ritenuto ente inutile; la previsione della prevalenza delle norme Costituzionali sulle direttive comunitarie, come avviene in Germania; la revisione dell’accordo europeo sulle regole di equilibrio di bilancio (il fiscal compact); l’assegnazione di maggiori autonomie alle Regioni.

Non è da escludere, peraltro, che di fronte alla necessità di rendere più snelle le procedure legislative e più efficace l’azione del governo si possa presentare l’esigenza di ulteriori riforme di questo tipo. Ciò potrebbe offrire alla Lega l’opportunità di riproporre l’attuazione del «federalismo», che rappresentò il fulcro di una riforma della Costituzione proposta nel 1993 dall’ideologo Gianfranco Miglio. Quella riforma prevedeva: la riorganizzazione dello Stato in «tre macroregioni» titolari di ampi poteri; uno Stato centrale con compiti di «rilevanza generale» (difesa, giustizia, ordine pubblico e politica estera); il superamento del «bicameralismo perfetto» con la costituzione di un «Senato delle autonomie»; l’elezione «diretta» del Presidente della Repubblica come segnale di rafforzamento dell’unità nazionale. La proposta non ebbe alcun seguito per l’accordo di governo intervenuto tra Bossi e Berlusconi, che allontanò Miglio dalla Lega.

Quella riforma, l’unica veramente «organica» tra le tante presentate, suscitò non poche perplessità per la previsione della divisione amministrativa del territorio in tre «macroregioni» - nord, centro, sud e isole - ritenute territorialmente troppo estese per garantire efficaci servizi. Ed è questo proprio ciò che paradossalmente appare dalle ultime elezioni politiche, che hanno visto l’Italia divisa dal punto di vista elettorale in tre grandi aree; il nord, monopolizzato dal centro-destra, il centro prevalentemente dal centro-sinistra ed il sud dal M5S. C’è più di una ragione, quindi, per pensare che l’ipotesi avanzata da Gianfranco Miglio avesse qualche fondamento.

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