Salvini vuole Roma
Attacco al Campidoglio

Mancavano soltanto le parole leghiste sulla sindaca di Roma Virginia Raggi («se ne vada») a rendere ancora più complicato il rapporto tra M5S e Carroccio. Il partito del ministro dell’Interno non nasconde di pensare che la Raggi dovrebbe farsi da parte soprattutto per la situazione della Capitale (la settimana scorsa migliaia di cittadini hanno riempito la piazza del Campidoglio per dire basta al degrado e alla paralisi dell’amministrazione comunale) e non solo in vista della sentenza giudiziaria che la riguarda e che arriverà il 10 novembre: se infatti sarà condannata per falso dovrà, almeno stando alle regole che i grillini hanno avuto fino ad oggi, dimettersi dall’incarico. E così molti vedono avvicinarsi un’onda che, mossa dalle difficoltà della prima cittadina della Capitale, spinge Salvini ad aprire una campagna alla conquista dell’Urbe che, se riuscisse, sarebbe un vero colpaccio per chi solo pochi anni fa accusava nelle piazze proprio «Roma ladrona».

Che si tratti di candidare l’alleata Giorgia Meloni o la ministra Giulia Bongiorno, alla fine poco conta: se la Lega strappasse ai Cinquestelle il fortilizio romano dopo una rovinosa caduta della sindaca, sarebbe quasi un suggello della conquistata leadership nell’alleanza di governo. I pentastellati lo sanno benissimo, a cominciare da Di Maio, non hanno intenzione di subire. Solo che si trovano nell’angolo: difendere ad ogni costo la sindaca più impopolare d’Italia (anche modificando ancora una volta le regole interne) o cedere e così favorire le mire leghiste?

È questo uno dei motivi, dicevamo, del crescente nervosismo tra i due alleati. Basta dare una occhiata a quanto sta accadendo al Senato per capire che il decreto sicurezza che tanto Salvini ha voluto arranca proprio per i mille mal di pancia dei grillini, alcuni dei quali hanno ripetuto tante volte che sono pronti a non votare un testo da cui profondamente dissentono. Non a caso Di Maio ha fatto un richiamo disciplinare alla truppa parlamentare agitando punizioni ed espulsioni ma sta di fatto che le critiche al testo salviniano sono di fondo, ideologiche, difficilmente sottovalutabili e possono aprire per il giovane vice premier due nuovi fronti: uno con l’alleato e un altro con la sua fronda interna, sempre meno timida nel venire allo scoperto. Non è un mistero per nessuno con quanta fatica i grillini abbiano digerito la pace fiscale voluta dalla Lega e hanno dovuto sobbarcarsi l’accusa dell’opposizione di aver accettato, proprio loro, un condono. E che dire dello scontro tra leghisti e grillini – classicamente tra Toninelli e Giorgetti – sulle grandi opere? La Tav che la Lega vuole (in sintonia con tutte le forze economiche, sociali e produttive pronte a Torino a scendere in piazza) e che i grillini osteggiano è solo l’esempio più eclatante delle divergenze sulle grandi opere, ma se ne potrebbero citare molti altri.

Si sapeva che sarebbe stata una convivenza complicata e anche che le difficoltà del governo avrebbero accentuato sia i nervosismi che gli scontri di principio e di interesse elettorale. Si capisce anche che le tensioni aumentino mentre la disoccupazione riprende a crescere, il Pil a calare, lo spread a rimanere alto, la Commissione europea a premere perché a Roma si cambi rotta prima di mettere a rischio l’Eurozona e il governatore della Banca d’Italia a lanciare preoccupatissimi allarmi per i rischi che stiamo correndo. Si capisce meno che i leghisti non partecipino al vertice indetto da Conte con il ministro Tria. Comunque, almeno la lottizzazione delle nomine Rai è (quasi) completata: dopo settimane di attesa e di trattative defatiganti Salvini e Di Maio si sono trovati d’accordo su chi mettere a dirigere telegiornali e giornali radio della tv pubblica. Sulle poltrone, come è noto, prima o poi un accordo si trova sempre.

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