Sanità, una riforma
da dosare con cura

Da questa mattina - e fino a venerdì - l’aula del Pirellone metterà ai voti il testo di riforma della governance socio-sanitaria regionale. Si chiude così un percorso (piuttosto accidentato, per la verità) che la maggioranza di Regione Lombardia ha voluto intraprendere oltre un anno fa, forse più per marcare in qualche modo la legislatura - decisamente più incolore rispetto a quelle rette da Roberto Formigoni, in particolare sui temi della sanità - che per una reale necessità di riformare il sistema.

Pur «vecchia» di 18 anni, infatti, la legge 31 per il riordino del Servizio sanitario regionale approvata l’11 luglio del 1997 rappresenta ancora oggi un fiore all’occhiello per la Lombardia, tanto da far considerare l’assistenza sociosanitaria fornita ai suoi assistiti come una tra le migliori in assoluto, prima in Europa per efficienza e terza nel mondo. È probabile, dunque, che un «lifting» ben calibrato sarebbe stato più che sufficiente per continuare a garantire ai lombardi una sanità di assoluto livello, magari rivedendo alcuni aspetti legati alla medicina del territorio e alle malattie neurologiche degenerative, con tutti i riflessi sulla popolazione anziana e su come assisterla. Maroni e la sua giunta hanno però fatto scelte diverse, anticipando a parole la volontà di una riforma che tradurre in pratica si è poi rivelato assai più complicato del previsto, tanto che, ad un certo punto, i testi di modifica avanzati in seno alla stessa maggioranza, erano addirittura quattro. Davvero un po’ troppi, ma il motore era ormai acceso e spegnerlo non avrebbe certo giovato all’immagine. Così, via di riforma. Ma cosa fatta, capo ha, e ora bisogna confrontarsi con il riordino previsto, cercandone un’applicazione seria e puntuale.

La chiave di volta dell’evoluzione proposta sta nella cancellazione di Asl e aziende ospedaliere per dare vita alle Ats - Agenzie di tutela della salute (Asl in formato ridotto) e alle Asst - Aziende socio sanitarie territoriali, e sono proprio queste ultime il vero «cuore» della riforma, perché è a loro che d’ora in poi sarà affidata l’erogazione delle prestazioni sanitarie e sociosanitarie, in pratica cure ospedaliere e assistenza territoriale. Al loro interno, dunque, le nuove Asst vedranno convivere insieme, in un’unica gestione, ospedali e «pezzi» di territorio. La nostra provincia avrà una Ats e tre Asst, una di queste tre formata dall’ospedale Papa Giovanni XXIII cui è stato annesso l’ospedale di San Giovanni Bianco (dopo le note polemiche sulla gestione «a cura» dell’azienda ospedaliera di Treviglio) e i vecchi Distretti Asl di Bergamo, della Valle Brembana e della Valle Imagna. È giusto sia così? È giusto che un ospedale di alta specialità, un’azienda ospedaliera di rilevanza nazionale riconosciuta dal ministero della Salute si occupi anche del territorio? I dubbi al riguardo - sollevati pure da una lettera che i capidipartimento del Papa Giovanni hanno inviato direttamente al governatore della Lombardia - hanno un legittimo fondamento. L’ospedale di Bergamo - nato e voluto dai bergamaschi ben prima che finisse in dote a Regione Lombardia - è sempre stato un’eccellenza nel panorama della sanità italiana, perché questa - da sempre - è l’impronta che i suoi amministratori gli hanno voluto dare, raccogliendo nel tempo i risultati sperati, risultati sotto gli occhi di tutti. È vero, un lieve appannamento c’è stato negli ultimi anni, ma la voglia di riposizionarsi ai vertici è tangibile, e Regione Lombardia deve fare il possibile per assecondarla. Certo, tutto si può fare (purché adeguatamente attrezzati…), ma siamo così sicuri che aggiungere un nuovo «ramo d’azienda» - totalmente diverso da quelli seguiti fino ad oggi dal Papa Giovanni - possa giovare al nostro ospedale? Siamo sicuri che continuando ad occuparsi delle «piccole cose» (fin troppe già oggi, utili a fare cassa, certo, ma non a fare rete…), anzi ingigantendone «il fardello» con il sociosanitario, non si corra il rischio di «provincializzare» troppo la struttura? Forse Regione Lombardia dimentica il cospicuo investimento sostenuto per costruire prima, e ultimare poi, il Papa Giovanni, un investimento che di per se stesso imporrebbe una vocazione non solo nazionale, ma almeno europea, un investimento - inutile nasconderlo - che ha costretto Regione Lombardia a ridurre i finanziamenti al resto della sanità lombarda per poter rimanere nei tempi. Bergamo, complice anche un’università di alto livello, un aeroporto particolarmente efficiente e le relazioni internazionali intessute da sempre, deve continuare ad aprirsi al mondo, il che non vuol dire dimenticarsi di Bergamo, ma - forse - riuscire ad essere ancora più vicino alla sua gente con cure sempre migliori, meno invasive e più efficaci.

Il discorso è invece diverso per gli altri ospedali, la cui forte integrazione con il territorio potrebbe anche essere un’arma formidabile per alzare (e armonizzare) l’asticella qualitativa delle prestazioni, per far crescere in maniera omogenea i livelli di assistenza, anche sul fronte sociosanitario assistenziale.

Ma una cosa richiede con assoluta certezza l’applicazione di questa riforma: manager preparati, molto ben preparati. A fine anno Regione Lombardia dovrà rivedere le nomine dei direttori generali fatte cinque anni fa, e questo aspetto non potrà dimenticarselo: solo gente che sa davvero di quel che parla potrà dare corpo alle ambizioni regionali, altrimenti il rischio di fallire sarà dietro l’angolo. E «l’armata» a disposizione non è fatta tutta da grandi condottieri….

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