Sarà legge di stabilità
ma aumenta le tasse

Ora che la legge di stabilità è approvata, possiamo finalmente studiarla e giudicarla. È davvero quella svolta, quel cambiamento per la crescita che ci era stato promesso? Tanto per cominciare non è una manovra che taglia le tasse: le entrate correnti erano 787 miliardi nel ’14, diventeranno 812 nel ’15 e 832 nel ’16. Qualunque sia la loro denominazione tecnica, questa è la misura del prelievo che la pubblica amministrazione nel suo insieme opererà dalle tasche dei cittadini e che nel prossimo biennio aumenterà di 50 miliardi.

Renzi può fare tutte le acrobazie lessicali che vuole, ma a Bergamo questo si chiama aumentare le tasse, non tagliarle. E d’altra parte esigere di più dai contribuenti è necessario perché, anche qui contrariamente alla vulgata fiorentina in salsa romana, le uscite correnti cresceranno dai 788 miliardi di quest’anno agli 810 del ’16. Nella perversa logica della gestione della cosa pubblica, avendo dato allo Stato il potere impositivo, questi ne usa e ne abusa nella misura in cui gli serve per coprire le uscite. Come se un lavoratore o un artigiano, invece di chiedere a chi lo fa lavorare quanto è commisurato alla sua prestazione, pretendesse di presentargli la nota delle sue spese personali.

Tornando ai numeri, non consolatevi all’idea che le uscite sono meno delle entrate: è consuetudine considerare la spesa al netto degli interessi, i quali oscillano fra gli 86 miliardi del ’14 e i 92 del ’16 e portano il risultato finale in disavanzo. Decrescente, ma sempre disavanzo. Infatti, l’avanzo primario (cioè al lordo degli interessi) è previsto essere ben consistente l’anno prossimo, superiore ai 54 miliardi, ma insufficiente, come visto, a remunerare il debito che abbiamo accumulato in lustri di finanza allegra.

Il risultato finale è che il pareggio sperato per il 2014 (e promesso all’Europa nel 2011) non solo non c’è, ma non è previsto neppure nell’arco del piano triennale. Con l’effetto, solo per gli sciocchi secondario, che il debito pubblico andrà ad incrementarsi ancora, proprio a misura che ogni anno apporta il suo piccolo fardello di disavanzo e quindi di passivo aggiuntivo.

Allora potremmo illuderci che questo saldo negativo è il frutto della politica di rilancio dell’economia che, per favorire la ripresa, scommette sulle grandi opere, sulle infrastrutture eccetera. Peccato che la parte di spesa in conto capitale, quella che misura appunto gli investimenti pubblici, resti incollata ai 50 miliardi all’anno come previsto per gli anni precedenti.

Dunque una legge di stabilità molto di continuità, che non avvia neanche un percorso di cambiamento della gestione della cosa pubblica. Conosco l’obiezione: le vere novità sono all’interno dei numeri, per esempio nella minor tassazione sulle imprese attraverso la riduzione della base imponibile dell’Irap. Ma a parte il fatto che quell’imposta è un piccolo mostro dalla sua nascita, e quindi questo sarebbe solo un rimedio parziale e tardivo, non dimentichiamo che saranno le stesse imprese (nel loro insieme, non come singoli soggetti d’imposta) a finanziare gran parte di questo sconto con l’anticipo dell’Iva che scaturirà dell’estensione del cosiddetto reverse charge.

La fisionomia del bilancio statale non cambia per queste piccole partite. Si può apprezzare una maggiore attenzione alla tassazione delle imprese e in particolare alla riduzione del cuneo fiscale, ma purtroppo l’incapacità di incidere sulla spesa obbliga ancora una volta a riprendere con la mano sinistra quello che si concede con la mano destra. Evidentemente non sono ancora maturi i tempi per una svolta radicale nel modo di condurre la cosa pubblica.

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