Schiaffo al Nord
e la lezione di Spada

Sorpresa, ma non troppo: il governo del cambiamento, quando esce dalla produzione di paure e torna ai problemi reali, non riesce a parlare al proprio elettorato. O meglio: due bacini di consenso, Lega e Cinquestelle, che sul lavoro e sulle infrastrutture si rivelano inconciliabili. Relazioni emotive e rappresentanza d’interessi vanno in conflitto. Da qui aggiustamenti in corso d’opera, fra cenni d’incultura politica e spruzzate d’improvvisazione demagogica, in cerca di una sintesi. Rampa di lancio per il contagio dell’insicurezza, dell’incertezza per il domani: quei mali oscuri che hanno fatto la fortuna di Salvini e di Di Maio e che i due soci contrattuali hanno promesso di sconfiggere dopo averli cavalcati. La storia torna all’anno zero e si ricomincia da capo: va scaraventato nella pattumiera della storia quel che è stato costruito «prima» di questa epifania. Fin qui la seconda manifattura d’Europa e l’Italia che continua a restare nel novero dei 7 maggiori Paesi industrializzati del mondo sono state governate da un club castale cieco e sordo, abitato da incompetenti.

Dipende, poi, dai giorni e dal punto in cui si trova la competizione mediatica fra i due vice premier. La Tav? No, grazie, intanto rifacciamo i conti. Tap? Forse, comunque la vuole anche Trump. Ilva di Taranto, la più grande acciaieria d’Europa? Chissà, intanto teniamola sull’ottovolante. Ma è il «decreto dignità», con la stretta ai lavori a tempo determinato e all’internazionalizzazione, a esprimere al meglio le contraddizioni di un cambiamento che arretra verso la cultura del ’900, mentre il «quarto capitalismo» del Nord sta sul pezzo della modernità.

Quell’universo arrabbiato e sgobbone che dopo essersi consegnato a Berlusconi-Bossi-Tremonti ha rinnovato la delega a Salvini nel tempo della destra radicale e nell’autunno della stagione moderata. Quelle filiere fatte di vitalità e di multinazionali tascabili che hanno accettato la sfida di rimettersi in discussione e che chiedono rispetto, uno sguardo amichevole, autonomia, briglie sciolte nel mondo global. Se sul piano dei diritti e delle garanzie (immigrati e non solo) questo Paese ammaccato cerca di demolire la scala di valori che ha fatto la storia della Repubblica, sul piano sociale si nota un certo risentimento, qualcosa di punitivo se non di sanzionatorio, un approccio inelegante.

La logica sottesa è che la «pacchia è finita», dunque occorre il risarcimento, perché la colpa è sempre di qualcun altro (il capro espiatorio) di cui noi siamo vittime. Già il nome «dignità» dice di precedenti infausti da mettere sul conto dei vecchi padroni delle ferriere. A ciò che può suonare offensivo anche per chi è stato protagonista della ripresa, imprenditori e lavoratori, si vuole aggiungere una lotta sociale che non esiste, una faglia che divide soggetti che invece si pensano come uniti da un comune destino.

Carlo Bastasin, sul «Sole 24 Ore», ha sottolineato che l’età media dei parlamentari della maggioranza ha 41 anni, una generazione che, confrontata con il lavoro, non ha conosciuto la crescita economica avendo vissuto l’età adulta in un’Italia a crescita zero. La lunga fase della doppia recessione ha modificato il tessuto culturale, per cui il sentimento è che chi è riuscito ce l’ha fatta solo a scapito degli altri. Si chiama invidia sociale ed è il frutto velenoso di una narrazione drogata anche dal pessimismo: chi vince è colpevole, perché lo fa a scapito dei più deboli. Un menu condito e servito con iniezioni di interventismo pubblico, che crede sempre meno nel privato, là dove l’avanzata grillina si sposa all’occupazione garantita, allo statalismo protettivo di ritorno. Fra decrescita felice, pauperismo e pezzi di cultura antindustriale.

La storia però non è questa. Le fratture Nord-Sud, generazionali e di classe sono figlie di un Paese che non cresce, di un reddito che non aumenta in modo significativo da decenni e di politiche fiscali inique. Il capitalismo molecolare del Nordest, quello dei padroncini e dei capannoni, è affollato da metalmezzadri, ex operai di successo e che investono nel capitale umano.

Già nel ’70, e proprio in agosto, il direttore di questo giornale, monsignor Andrea Spada, parlando degli industriali al crocicchio scriveva: «Uomini che fanno l’orario dei loro operai, essi stessi magari ex operai, o figli di operai, che non si rassegnerebbero mai a vivere staccati dal ritmo quotidiano delle loro aziende, che ci vivono dentro, conoscono uno ad uno i loro collaboratori, sentono l’assillo di stare al passo con il progresso tecnologico». Il Nord autentico è questo, non quello immaginato dal «decreto dignità». Comunque vada a finire, il malessere di questo pezzo italiano d’Europa non trova pace pure in terreni politici favorevoli. Rimane lì in allerta e sotto pelle, sospeso in quella secessione sentimentale dalla politica che dagli anni ’90 procede fra attese e delusioni. E che imporrebbe un po’ a tutte le parti in causa qualche riflessione autocritica.

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