Se i colletti bianchi
scendono in piazza

Dopo molte astratte analisi sulla crisi del ceto medio, segnala un concreto e acuto malessere che merita attenzione la protesta che oggi dovrebbe portare in piazza a Roma, da tutta Italia, «almeno 30 mila» liberi professionisti, in nome del riconoscimento dell’«equo compenso» per il loro lavoro. Certo, fa un certo effetto, per le modalità, vedere sfilare il proprio dentista là dove hanno tante volte manifestato gli operai, ma anche questo è un segno dei tempi da non sottovalutare, se vogliamo capire le radici profonde di quel male contemporaneo che è il populismo. Il tema dell’equo compenso è in sé forse un po’ restrittivo, e la marcia indietro che viene richiesta, così come l’attenuazione di alcune parti della tanto necessaria legge sulla concorrenza, non corrispondono ad una liberalizzazione sempre più essenziale per la competitività del Paese. Se mai è il tema più generale della centralità della competenza e del riconoscimento della professionalità che dovrebbe essere al centro della questione del lavoro di categorie eccellenti come quelle che hanno aderito alla manifestazione: avvocati, commercialisti, consulenti del lavoro, architetti, ingegneri, notai, odontoiatri (non hanno aderito all’ultimo i geometri). Forse è però più efficace, più «sindacale», l’indicazione di alcuni punti specifici, rispetto alla generale questione dello spazio di rilevanza da riconoscere a questa fetta del ceto medio che conta nell’insieme ben 2,3 milioni di colletti bianchi.

E oggettivamente richiede una riflessione il dato per cui ci sono, nell’Italia dei troppi avvocati, ben 100 mila professionisti che guadagnano (o denunciano, ma lasciamo da parte il discorso fiscale, per una volta) meno di 20 mila euro all’anno, da cui detrarre previdenza e tasse. Nel Sud, questo equivale a scendere sotto la soglia di povertà, e stiamo parlando soprattutto di giovani. Se il comparto ha perso in sei anni il 23 per cento del fatturato e persino la categoria iperinvidiata dei notai segnala crolli ancor più consistenti, e nonostante questo le facoltà di giurisprudenza continuano a sfornare laureati, dovremo pur porci il problema di come gestire situazioni che non sono più quelle novecentesche dello studio che passa di padre in figlio.

Ma questo significa anche – lo devono comprendere gli Ordini – che si va verso dimensioni e competenze interdisciplinari che richiedono investimenti materiali e immateriali, ed allora appare di retroguardia la battaglia contro l’ingresso delle società di capitali negli studi professionali.

Occorre insomma distinguere all’interno di una protesta così vasta. È sempre più chiaro, ad esempio, che la nuova norma sullo split payement (non pagamento dell’Iva in fattura, trattenuta all’origine) nel rapporto con la Pa, è senza utilità per l’erario e di danno e complicazione burocratica e finanziaria per i professionisti. Va modificata.

E a proposito di «equo compenso» erano formalmente giuste le preoccupazioni antitrust che hanno abolito i tariffari da molti anni, giusto all’inizio della crisi, ma alcuni Paesi non li hanno mai davvero abrogati, e una recente sentenza europea ha introdotto almeno i minimi «inderogabili». Da noi, è cresciuta invece una giungla al ribasso che ignora la qualità e non tutela i clienti, con casi davvero abnormi, e soprattutto, con la scusa della crisi, di vera e propria vessazione. Se banche e assicurazioni stipulano forfettariamente incarichi da 1.000 euro, e il giudice liquida le spese per 5.000, significa che l’ente incamera i 4.000 di differenza, e il professionista sa che se protesta ci sarà qualcuno pronto a sostituirlo.

Sono in gioco per questo valori di dignità anche personale che spiegano l’insofferenza di persone che hanno studiato, fatto gavetta e tutti vorremmo che avessero spazio e risorse per un aggiornamento continuo. Gli odontoiatri denunciano scontistiche del 2.000 per cento, gli architetti lamentano che, con la crisi attuale, vi sono studi che sottopagano giovani talenti.

Si vede qui la sostanza vera del tema che l’anomala manifestazione odierna segnala. Quando il ceto medio scivola verso il basso, c’è un impoverimento che colpisce tutti, che fa male al sistema complessivo, perché si rafforzano le diseguaglianze non solo generali, ma interne a categorie che dovrebbero competere solo per la propria capacità di stare sul mercato della conoscenza e della consulenza.

Proprio questa settimana è passata una legge innovativa, una specie di jobs act per gli autonomi, che ha introdotto istituti fino ad ieri impensati, come indennità per disoccupazione e maternità. Sono progressi importanti sintomo di una giusta attenzione, purché si comprenda anche che il problema è più generale e il Paese non può umiliare non solo una decina di categorie, ma ciò che rappresentano, la professionalità.

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