Se il debito pubblico
è venduto ai cinesi

Il ministro dell’Economia sa che la fiducia nella tenuta del Paese è debole. L’Italia è l’unico Paese del G7 che vede un calo trimestrale del Pil. Nel Regno Unito in pieno caos politico e con la minaccia di un’uscita traumatica dall’Unione si registra un segno più: si passa da 0,2 a 0,4%. Questo governo gode del favore degli italiani per i due terzi dei consensi ma quando si tratta di mettere mano al portafoglio molti si ritraggono. Gli investitori stranieri hanno venduto debito italiano per 38,2 miliardi nel mese di giugno ma a subentrare sono stati la Bce e le banche. Le famiglie si astengono anche se i rendimenti sono migliorati. Del resto di questo passo con l’aumento dei tassi di interesse il carico per le casse dello Stato salirebbe di un miliardo di euro. In un contesto di questo genere il viaggio di Giovanni Tria in Cina acquista giocoforza una valenza finanziaria. Il ministro dell’Economia fa giustamente sapere che non è andato a Pechino per vendere debito italiano ma è nei fatti che se i cinesi subentrassero agli speculatori al ribasso, per l’Italia e il suo governo si aprirebbe una nuova fase. Quella di dover ricambiare il favore.

Il ministro fa presente che i fondamentali italiani sono buoni e che da vent’anni si registra un surplus di bilancio al netto del servizio sul debito. Un modo come un altro per rassicurare i propri interlocutori. La paura vera degli investitori è che con questa crescita al lumicino risulti impossibile far fronte al debito. Se il governo garantisse la stabilità dei conti in tutta la sua compagine è probabile che le fluttuazioni non sarebbero salite a 281 punti come due giorni fa. Ieri l’asta dei Bot ha fatto il pieno ma il carico di interessi sale del 0,44%. Il ministro Di Maio ha detto che superare il 3% non è un tabù. Subito corretto dal titolare dell’Economia: il governo continuerà a ridurre il rapporto tra Pil e debito e non supererà la soglia del deficit come previsto dai criteri di Maastricht. Vi è quindi una questione politica di fondo: si teme che la nuova maggioranza di governo attui i programmi elettorali e quindi tra flat tax, aumento pensionistico, reddito di cittadinanza renda l’Italia insolvibile. È questa la spada di Damocle. A queste condizioni non c’è colore politico che tenga, quando i compratori di debito si assottigliano ogni aiuto è benvenuto. Nei giorni scorsi il ministro per le Politiche europee Paolo Savona ha chiesto l’intervento della Bce in caso di speculazioni sui titoli italiani. Se Draghi si rifiutasse, alla Russia spetterebbe il ruolo di cavaliere bianco. La Cina ha un solo obiettivo, portare avanti il programma della Via della Seta. Per far questo deve avere dei porti di approdo che permettano alle merci made in China di arrivare sui mercati europei il più veloce possibile. Il 90% del traffico mondiale è su nave.

Suez e l’Oceano Indiano sono la via più breve. Arrivare a Trieste o Genova permetterebbe un accesso al Centro Europa strategico. Lo Stato cinese ha già comprato il 51% del porto del Pireo, ma anche di Bilbao e di Valencia, a Marsiglia è al 49% ad Anversa al 35%. Manca solo l’Italia. È una politica di espansione che tiene conto della necessità di compensare l’attivismo americano sul fronte dei dazi. Ma ai cinesi così come agli americani può solo far piacere che l’Europa si presenti in ordine sparso. Un piccolo Paese come l’Italia è molto più condizionabile che un’Unione Europea nella sua interezza. L’industria tedesca ha da tempo puntato sulla Cina. Ma anche la Germania da sola non gliela fa. È troppo piccola per il gigante asiatico. E così per sfuggire alle intemperanze di Trump finiremo per cadere nei tentacoli del drago cinese.

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