Se l’arma del ricatto
si chiama spreco

Sembra che si stia ricomponendo lo scontro violento che ha opposto nei giorni scorsi Matteo Renzi ai presidenti delle Regioni. Sui sacrifici da fare potrebbe essere trovato qualche compromesso, stando almeno alle cose che filtrano da palazzo Chigi e dal Partito democratico. Non che la cosa sia semplice, anzi. In ballo, secondo i dettami della Legge di stabilità 2015, ci sono 4 miliardi dei fondi regionali da tagliare: da tagliare, chiede il governo, senza toccare la sanità e i trasporti, vale a dire quasi l’ottanta per cento delle attività regionali.

Per questa ragione i governatori si sono ribellati: con questa sforbiciata o tagliamo i servizi o aumentiamo le tasse, hanno detto in coro, a cominciare dal loro presidente Sergio Chiamparino, il presidente piemontese che milita accanto a Renzi sin dai primissimi tempi. Il punto è proprio questo: quando le Regioni si sono sollevate contro l’esosità governativa, Renzi – Chiamparino o non Chiamparino – non ha esitato un solo istante a metterli con le spalle al muro, rinfacciando loro gli scandali degli ultimi tempi, gli esempi di clamorosa corruzione che si sono avuti nei consigli e nelle giunte regionali, le ruberie, la finanza allegra, gli arresti a catena di consiglieri e assessori e, nel complesso, l’enorme spesa che le Regioni producono. Con questa reputazione, ha detto il premier in varie interviste, voi volete rifiutarvi di tagliare gli sprechi?

È bastata la minaccia di una gigantesca delegittimazione per indurre Chiamparino e colleghi a dichiararsi disponibili a cercare una soluzione ragionevole. Pare che l’escamotage trovato risieda nelle dotazioni del Fondo sanità che non riceverebbe due miliardi già promessi, e questo pareggerebbe i conti con quanto i governatori già si aspettavano di dover pagare. Debora Serracchiani, che oltre ad essere vicesegretaria del Pd è anche presidente del Friuli Venezia Giulia, e il sottosegretario Del Rio in queste ore si stanno attivando per arrivare al compromesso e calmare le acque anche perché, a parte Caldoro, Maroni e Zaia, i governatori sono quasi tutti del Pd.

Ma è significativo, e merita una riflessione, il metodo che Renzi riserva a chi si oppone al suo trattore in movimento: tirar fuori una magagna del renitente, esibirla al pubblico ludibrio e così ottenere che chi ha alzato la voce provveda ad abbassarla. Non che questo funzioni sempre, beninteso: i magistrati, accusati di essere un po’ pelandroni e di fare troppe ferie, ancora non demordono; i dirigenti delle aziende di Stato invece hanno accettato senza fiatare i tetti ai loro stipendi. E ugualmente a brutto muso sono stati trattati i giornalisti della Rai quando protestarono per l’obolo di 150 milioni che la tv di Stato fu costretta a versare all’erario, e i sindacati delle forze dell’ordine in procinto di fare uno sciopero che Renzi ricordò bruscamente essere illegale e dunque anche passibile di conseguenze. Insomma, quando si tratta di «spianare», per usare un verbo che piace molto all’ex sindaco di Firenze, a palazzo Chigi non ci pensano due volte.

Del resto, i sondaggi provano che questo comportamento paga moltissimo in termini di consenso politico e personale: ogni volta che gli elettori percepiscono che Renzi sta rottamando pezzi di Casta non fanno mancare il loro applauso, quello che consente al premier di viaggiare ancora su un comodo 40%. Tutto ciò i governatori lo sanno e dunque, per quanto a malincuore, sono costretti ad adeguarsi. Naturalmente anche Renzi non può sottrarsi ad un obbligo preciso: cominciare a far vedere al Paese qualche risultato concreto. La Legge di stabilità ne promette parecchi, forse troppi.

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