Se soffre la lingua
soffre la civiltà

Anche il 2015 per la nostra lingua è stato un anno duro. «Divisivo» (ahimè sdoganato da Sergio Mattarella in uno dei suoi primi discorsi) che aveva imperversato per tutto il 2014 è arretrato suo malgrado e si è pure ridimensionata la «narrazione» (non sarà perché si è ridimensionato Vendola?). In compenso è dilagato senza pudore il «populismo», usato-abusato-sprecato quasi sempre a sproposito. L’attacco mortale al cuore dell’italiano l’ha sferrato, però, l’ennesimo anglicismo (orribile, gratuito, sostituibile): «stepchild adoption», l’adozione di bimbi ai gay. Ogni secondo muore un termine italiano per far posto a un analogo inglese non necessario.

Tornando a casa nostra, continua la strage degli innocenti ovvero dei monosillabi massacrati senza pietà. Un’impertinente pioggia di accenti, di apostrofi, di «h» li martella a casaccio seguendo l’unica regola che sembra possibile: «dove colgo, colgo». La sopravvivenza del congiuntivo è ormai affidata alle macchine. I pronomi relativi corretti rischiano l’estinzione: usare «cui», «di cui» è diventato più pericoloso dell’attraversamento di un campo minato. La particella «ne» ci riporta agli anni della guerra («di questo ve ne parlo volentieri»). «Gli» ha sopraffatto «le» e «loro» e domina tirannicamente (e abusivamente) da solo.

Un amico che vuole restare nell’ombra mi segnala un contributo alla galleria degli orrori: «vado a lavoro» (anziché «al lavoro»).

La questione meridionale, si sa, pare più attinente all’eternità che alla storia; quasi come la «Salerno-Reggio Calabria» o il ponte di Messina che in fondo ne sono una conseguenza. Essa (la questione meridionale) continua in tutta la sua solennità a riaffiorare persino nelle aule scolastiche della penisola! Qualche temerario docente ancora ci regala qua e là un meraviglioso «uscite il diario…». La passione compulsiva verso i verbi transitivi produce quello che ormai è entrato nella mitologia nazionale con il parossistico: «scendi il cane che lo piscio». Una difficile e tradizionale battaglia di chi scrive sta nel promuovere il «capace/incapace DI» e nel contrastare con ogni mezzo il «capace A». Non è partita facile.

La lingua è un organismo vivente e molti dei fenomeni qui segnalati attengono alla sua naturale trasformazione, nonché alla sua necessaria modernizzazione.

È questa una delle principali argomentazioni con cui i fautori di tanta vivace spigliatezza difendono le novità (e gli strafalcioni!). Non solo: conservatorismo e passatismo nostalgico animerebbero i difensori della correttezza e dell’eleganza formale della lingua parlata e scritta.

Non sono questi i termini a confronto. La vera contrapposizione non è tra progresso e conservazione ma tra ignoranza, cattivo gusto, sciatteria da un lato e rispetto di sé e dei propri interlocutori dall’altro.

Forse nei fenomeni in esame c’è di più. C’è la difficoltà a resistere a processi di omologazione e di massificazione acritica che la cosiddetta modernità porta con sé. Il fatto è che la sofferenza di una lingua è la sofferenza della civiltà che essa rappresenta e interpreta. Non voglio nemmeno pensare a cosa rappresenterebbe la morte di una lingua.

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