Senza Schengen
l’Europa è monca

«O rinunciamo a Schengen, o rinunciamo alla nostra anima». Questa frase di un alto funzionario tedesco durante la riunione in cui vari Paesi hanno proposto la sospensione del trattato di libera circolazione per due anni, riassume perfettamente il dilemma in cui si trova in questo momento l’Europa.

Le previsioni sono che, dopo il milione abbondante del 2015, un numero ancora superiore di migranti cercherà di entrare nella Ue; e con la globalizzazione del fenomeno (ormai arriva gente anche dal Congo e dal Bangladesh, che non ha alcun titolo per chiedere asilo) potrebbero diventare anche due milioni negli anni successivi. Un’invasione che, con la migliore volontà, un’Europa già densamente popolata e con i servizi sociali al limite della sostenibilità non può reggere. Per questo, i Paesi prima più accoglienti, come la Svezia, la Danimarca, l’Austria e (dopo la parziale marcia indietro della Merkel dalla politica delle porte aperte) la stessa Germania, hanno già ripristinato i controlli alle frontiere, o adottato, come la Danimarca, provvedimenti punitivi come la confisca dei beni oltre una certa cifra. Tutti sono decisi a mantenere questa linea fino a quando non si troverà il modo di instaurare stretti controlli alle frontiere esterne dell’Unione, in particolare a quelle marittime – e quindi più porose – di Grecia e Italia, limitando drasticamente gli arrivi.

Ma, per fare questo, per dirla con il funzionario tedesco, dovremmo rinunciare ai principi che hanno governato la nostra condotta fin qui. Dovremmo, cioè sopperire alle mancanze del governo di Atene denunciate da Bruxelles inviando una flotta UE nello stretto canale che divide la Turchia dalle isole greche e respingere le decine di imbarcazioni che lo attraversano ogni giorno, salvando i migranti se naufragano, ma riportandoli, donne e bambini compresi, da dove sono partiti (dato e non concesso che i turchi se li riprendano). Dovremmo fare la stessa cosa nel canale di Sicilia, dove il traffico riprenderà con la primavera e il Paese di origine, la Libia, è nel caos. Dovremmo, presto, metterci a pattugliare anche il Basso Adriatico, perché se la successione di fili spinati che vengono eretti ai vari confini renderà troppo ardua la via dei Balcani, i migranti si riverseranno in Albania e in Montenegro e di lì cercheranno di raggiungere le coste pugliesi. Per adottare questa linea dura, i governi europei dovrebbero chiedere, in base all’articolo 45, una modifica della Convenzione di Ginevra (quasi impossibile da realizzare), o violarla platealmente, respingendo tutti i migranti senza avere prima selezionato gli aventi diritto a asilo politico o a protezione umanitaria dagli abusivi.

Il compromesso che l’Europa sta cercando è di fare sbarcare tutti, schedarli, rispedire a casa i migranti economici e distribuire gli altri in tutta l’Unione. Ma abbiamo già visto che nessuna delle due cose funziona. Respingere i «non aventi diritto» una volta che hanno messo piede sul suolo europeo è infatti quasi impossibile, perché spesso non si sa di che nazionalità siano, i Paesi d’origine non li riprendono, i rimpatri costano un patrimonio, e chi riceve un semplice foglio di via se ne infischia e si dà alla clandestinità. La Svezia pensa di organizzare charter per rispedire a casa 80 mila «non aventi diritto», ma se tutto va bene ci metterà tre anni e l’idea della Olanda di rispedire gli indesiderati in Turchia in treno (coi vagoni piombati?) appare addirittura fantascientifica. Neppure la distribuzione dei profughi di guerra, che richiederebbe comunque una modifica degli accordi di Dublino, è realistica, perché una buona metà dei Paesi della Ue la rifiuta. Perciò, con Schengen sospesa, anche quando noi italiani avremo ottemperato all’accordo di istituire 5 hot spot (o punti di registrazione) rischiamo, insieme con la Grecia, di doverci tenere la maggior parte dei nuovi arrivati. Risolvere il problema dell’immigrazione è perciò come quadrare il cerchio. Con l’aggravante che, rinunciando a Schengen (ma preservando la nostra buona coscienza), rimuoveremmo un pilastro dell’Unione Europea.

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