Shoah, ricordare
per restare uomini

Nel 1961 Hannah Arendt seguì, per conto del settimanale New Yorker, le centoventi sedute del processo ad Adolf Eichmann che si svolgeva a Gerusalemme. Eichmann durante la guerra, pur non essendo mai andato oltre il grado di tenente colonnello, fu il coordinatore e il responsabile della macchina delle deportazioni, colui che provvedeva a organizzare i convogli ferroviari che trasportavano gli ebrei europei verso il campo di sterminio di Auschwitz Birkenau. Dopo il conflitto si rifece una vita fuggendo in Argentina. Nel maggio del 1960 agenti israeliani lo rintracciarono e lo catturarono: con un’operazione che fece molto discutere, in segreto e in violazione delle leggi internazionali, lo portarono in Israele.

Processato, nella sua difesa ribadì più volte che, in fondo, si era occupato «soltanto di trasporti». Quel processo, un vero e proprio spartiacque nella coscienza di Israele di fronte alla Shoah, fu seguito da moltissimi giornalisti di tutto il mondo. La Arendt, filosofa e storica tedesca naturalizzata americana, fu una di questi. Il resoconto del processo e le sue considerazioni pubblicate sul settimanale furono poi raccolte in un libro stampato in Italia da Feltrinelli, «La banalità del male».

La tesi era evidente: «Le azioni erano mostruose ma chi le fece era pressoché normale, né demoniaco né mostruoso». Agli occhi della Arendt, Eichmann era un uomo comune, caratterizzato dalla superficialità e mediocrità. Ciò che scorgeva in lui non era neppure stupidità, ma qualcosa di completamente negativo: l’incapacità di pensare e agire in modo umano. «Il guaio del caso Eichmann era che di uomini come lui ce n’erano tanti e che questi tanti non erano né perversi né sadici, bensì erano, e sono tutt’ora, terribilmente normali. Dal punto di vista delle nostre istituzioni giuridiche e dei nostri canoni etici, questa normalità è più spaventosa di tutte le atrocità messe insieme». Tanti, tantissimi uomini comuni, molti di questi credenti, che in nome di una presunta obbedienza e fedeltà a valori e idee, sono stati incapaci di distinguere tra giusto e sbagliato e hanno trovato la forza, giustificandosi, le persone in numeri, le vite di donne e uomini, vecchi e bambini in cifre.

«Banalità del bene» è invece il titolo del volume di Enrico Deaglio che presenta la vicenda di Giorgio Perlasca, il fascista che dopo essere stato in Spagna a battersi con i franchisti contro i repubblicani, allo scoppio della seconda guerra mondiale va a Budapest per commercio. Nell’inverno del 1944 finge di essere il Console spagnolo in terra magiara e firma migliaia di documenti falsi e migliaia di visti che permettono ad altrettanti ebrei di essere ospitati, e salvati, nelle case protette di pertinenza della legazione spagnola.

La sua storia rimane nascosta fino al 1987 quando alcune donne ebree ungheresi residenti in Israele lo rintracciano e raccontano ciò che aveva fatto. «Lei cosa avrebbe fatto al mio posto?», ha chiesto più volte a Deaglio. Che scrive: «Un quesito breve che supplica comprensione, fa balenare la fragilità e la debolezza, non solo di chi parla, ma soprattutto di chi ascolta. Ma Giorgio Perlasca, il vecchio signore che me la poneva, non cercava scusanti. Al contrario, stava cercando di dirmi che tutti, nella maniera più naturale, avrebbero dovuto comportarsi come si era comportato lui».

Oggi, a distanza di settantadue anni dall’apertura dei cancelli di Auschwitz, celebriamo la Giornata della Memoria. Perché non si cada nella melassa retorica che cresce con il passare degli anni, occorre non solo conoscere a fondo ciò che è accaduto, ma guardare con un’umanità il presente. Perché, come ricordava Primo Levi, «la peste si è spenta ma l’infezione serpeggia». E ogni giorno decidere da che parte stare, perché dentro di noi è sottile il confine tra la banalità del male e la banalità del bene. Ne va della nostra umanità. Ne va dell’umanità del mondo. Che si regge sulla risposta di ciascuno a questa domanda del Talmud: «Chi se non io? E se non ora quando?».

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